Prima di tutto grazie per i complimenti, Gio. Mago della parola non me l’avevano mai detto
In effetti come autore sconosciuto ho la spiacevole sensazione di risultare invisibile ai più!!!
Mi fa un immenso piacere che ti sia soffermata sullo stile, perché troppo spesso su internet mi pare conti solo la fabula. Eppure nei libri la scrittura vale quanto scenografie, costumi, regia, montaggio e fotografia di un film! Mistero...
Passo subito ai punti che ti hanno convinta meno, prima per alcune considerazioni di carattere generale, che spero possano aiutare altri viandanti a farsi un’idea più accurata del libro, e poi a motivare le scelte degli esempi da te citati. Ciò non toglie, comunque, che rifletto sempre sugli appunti che mi vengono mossi: faccio tesoro di tutto e, se il proseguimento della saga si concretizzerà, ne terrò conto.
Partiamo dalla scarsa enfasi posta sull’interiorità dei personaggi. Non è che non mi sia soffermato su di essa, però è vero che l’ho esplicitata poco, nella misura che ritenevo indispensabile. Questo sia perché per natura sono una persona chiusa, introversa, che comunica le emozioni più per sfumature che per lampi di colore, sia per la scelta filosofico-culturale che sta dietro all’intera opera. Come ho accennato in altre discussioni, ho guardato molto alla tradizione germanico-norrena, anziché al retaggio tipicamente occidentale di stampo cristiano. Ciò ha comportato che rispetto ai processi tradizionali di evoluzione e crescita del personaggio, in cui il libero arbitrio riveste un ruolo cruciale (e con esso quindi tutti i dissidi interiori che sottendono alle scelte), ho privilegiato il concetto di fato ineluttabile che viene dal Nord, rappresentato dalle norne che precidevano il destino di uomo già alla sua nascita, sorte a cui egli non aveva modo di sottrarsi, come del resto gli dei (pensiamo al mito del Ragnarok), indipendentemente dalle proprie azioni. È un concetto presente anche in diversi punti delle opere di Tolkien, nel quale ho riscontrato (però potrei essere stato più attento e sensibile a determinati elementi piuttosto che ad altri) una simile tendenza a soffermarsi poco a scandagliare le intenzioni dei suoi tanti attori. Questo fa sì che in un certo senso i personaggi si sentano investiti di responsabilità più grandi di loro, vengano quasi chiamati ad adempiere a una missione più importante dei sentimenti provati e agiscano di conseguenza, risultandone schiacciati sul piano interiore. I moventi politici e le ambizioni risultano invece evidenti perché sono strumenti per la realizzazione del fato, mentre le emozioni perdono peso in quanto vani struggimenti di pedine mosse da una potenza di cui persino gli dei sono succubi. Nella mia visione, un ruolo preminente spetta invece alla lettura degli eventi, ai meccanismi di queste ruote immani e senza tempo che macinano vite, nazioni e civiltà, di fronte a cui siamo quasi inermi, come succede a ognuno di noi al cospetto della Storia che si scrive ogni giorno. Un eroe come Yanvas può molto più di un uomo qualsiasi, eppure anche lui fa parte di un cerchio, della lotta a somma zero tra Bene e Male che prima o poi dovrà terminare nell’apoteosi del caos e infine della nascita di un nuovo equilibrio, dal quale tutto possa ricominciare ancora una volta.
Non è semplice astrarre il discorso così tanto da non spoilerare, ora passo agli esempi concreti e magari sarò più chiaro.
SPOILER SPOILER SPOILER
SPOILER SPOILER SPOILER
VADE RETRO, IGNARO LETTORE
PUSSA VIA, HO DETTO!
SE STAI ANCORA LEGGENDO SONO CAVOLI TUOI
1) la storia d’amore! Yanvas non è innamorato tanto di Sylia, quanto di ciò lei che rappresenta. La ragazza incarna tutto ciò che lui non ha mai avuto: stabilità, amore, pace, una vita di cui essere padrone e non più mero esecutore d’ordini, longa manu della Corona Nera. Ecco perché ne viene fulminato. In un certo senso, la ama prima ancora di vederla, culla l’idea di amarla. Anche dopo il rito, Yanvas non cerca Sylia come persona, bensì per quel catalizzatore di positività che ha rappresentato per lui, sperando che possa riaccendere un barlume di vita nella sua anima atrofizzata dal patto faustiano. Nella narrazione infatti cito spesso la speranza, sempre più debole, che lui ripone nel ruolo salvifico della ragazza. Anche se poi lui lo nega, ripudiando l’amore, l’ultimo dono che Sylia gli fa è mostrargli cosa sarebbe un isir se perdesse del tutto la propria umanità. In quel momento nasce uno Yanvas meno selvaggio e incontrollabile, se possibile più freddo e pericoloso, perché comincia a sostituire il fuoco dell’ira con il ghiaccio tagliente della vendetta meditata;
2) le reazioni di Sylia: qui secondo me emerge fortissimo il ruolo che pesa su ogni personaggio, affibbiato dal fato, dalla vita e da una società che, è bene ricordarlo, è ben lontana dal nostro sentire. Sylia, così come Yanvas è nato e cresciuto per essere il guerriero perfetto, è condizionata dall’essere stata sempre considerata merce di scambio dal padre, per quanto pregiata. Nell’abbraccio del fuggitivo, Sylia s’incrina perché in quel momento si sente inadeguata, vacilla tra il senso di colpa per aver deluso il suo padre padrone e il dovere di essere sincera con l’uomo che ama. Non sa se ascoltare il cuore o la ragione e ne viene sopraffatta. Successivamente prevale il cuore e a quel punto in lei scatta lo spirito di rivalsa, di ribellione alle regole: se per suo padre è un bene prezioso, il danno più grande che può arrecargli è svilirsi senza che lui ne tragga frutti, perdendo la propria innocenza con un uomo senza futuro, ripudiato dal sistema. Sylia quindi non solo consuma il suo amore, ma esce dagli schemi e sublima tutta la rabbia e il dolore per l’ingiustizia subita. Sa che non potrà più avere una vita con Yanvas, ma almeno fa in modo di sottrarsi alle future macchinazioni del padre. Il suo gesto è molto più dirompente di qualsiasi lacrima, forse anche più forte della morte, perché dovrà vivere i giorni che le restano affrontandone le conseguenze, senza la deresponsabilizzazione data dall’oblio;
3) le rivelazioni: qui la mia intenzione era dipingere uno Yanvas reso determinato dalla disperazione, perché un uomo che ha il vuoto alle spalle, può andare soltanto avanti, qualunque cosa lo attenda. Per me lui in quel momento è esattamente così, è come un naufrago sul punto di soccombere e che si vede tendere una cima. Non ha scelta. Anche se fossero i più oscuri demoni degli inferi a invitarlo a salire sul legno di Caronte, accetterebbe, perché chiede solo di uscire dal problema immediato prima di affrontarne un altro. Il padre gli ha offerto la via d’uscita che lui fino a quel momento aveva solo sognato, di certo non si è fatto delle domande! L’ha colta al volo prima che svanisse. Tra la fuga e il rito, infatti, Yanvas sorride beffardo e amareggiato per la piega che ha preso la sua vita. Non si cruccia troppo, anzi non gli importa nemmeno di aver disertato. I veri dubbi cominciano ad attanagliarlo più tardi, quando si trova di fronte prima al tributo di sangue esatto dall’incantesimo, e poi agli spettri che gli ricordano ogni giorno la maledizione degli dei. L’isir è sempre combattuto, ha paura di ciò che gli alberga nel cuore immobile e ci riflette spesso durante il viaggio e nei momenti di solitudine, cerca di capire cosa sia diventato davvero e lo fa in modo spietato, per esempio subito dopo la morte del padre. In questo senso, a mio avviso, l’introspezione c’è, però è traslata nel tempo e scandita da eventi che lo costringono a guardarsi dentro, distogliendolo per un attimo dalla missione (prima di giustizia, poi di vendetta) che è al contempo sprone, scudo e alibi.
FINE SPOILER