FIABA
«Vendete la vacca! Signor padrone, mi tocca vendere la mia vacca»
«Sentite, gli gridò in faccia, fate come vi pare.»
«Ma non posso, signor padrone! Ci pensi un poco» E si torceva le mani per la disperazione. Inutile. Bisognò proprio che Pasquale si decidesse: quando i debiti ci sono, si pagano. E quando anche il padrone ha i suoi, non si può aspettare che torni la buona annata: bisogna vendere e pagare.
Il padrone era un brav'uomo. Ma anche i signori hanno i loro fastidi: e poi ci hanno il decoro da mantenere. Stavolta era inflessibile.
Dunque Pasquale andò in istalla, dove la vacca, una grossa bestia dagli occhi mansueti, stava sdraiata nel letto di foglie secche.
«Su, levati su, poverina te, che ti tocca di cambiare padrone!"»
Quasi ci aveva le lagrime agli occhi.
L'accarezzò e la baciò, come si fa con le persone di famiglia, perché ormai la vacca era di famiglia, e la si trattava con bei modi.
«Il diavolo la porti padrone! Levati su, poverina!».
Le attaccò al collo un campano e una corda e menò con sé il figlio maggiore. Presero per i campi. Andavano per i campi in tre, tristi e tranquilli. Perché non c'è niente da fare: se ci sono i debiti, si pagano e quando anche il padrone ha i suoi, bisogna vendere la vacca e crepare di fame, crepare di malinconia, che il diavolo si porti anche il padrone.
Al ritorno Pasquale si sedette sulla soglia in faccia ai campi e piangeva come un bambino perché tutto era andato male, e i figli, tornando dai campi, erano sfiniti e taciturni, la massaia andò dal signor padrone con i marenghi che erano molti e suonavano. Quella sera mangiarono appena i più piccoli. Gli altri si provarono ad ingollare qualche cucchiaio di minestra: non volevano andar giù.
Allora Pietro, che aveva sedici anni ed il volto angoloso come campo arato, e più cervello in capo, che forza nelle braccia, s'andò a mettere vicino al vecchio. Pareva che avesse da dire qualche cosa e non diceva nulla. Finalmente si decise:
«Pà! Sentite, pà».
Diventò tutto rosso e non aveva la forza d'andare avanti. «Sentite, pà: io voglio farmi prete».
I ragazzi alzarono la testa spaventati.
Pasquale non parve aver capito. Gli piantò in faccia due occhi di fuoco e disse:
«Cosa c'è?»
«Non avete sentito, pà? » riprese Pietro. «Non avete sentito perché ci avete troppo dolore in cuore. Anch'io, pà, ci ho tanto dolore. Voglio fare il prete e pregare per voi. Non fate quella faccia: mica vi ho detto una cosa cattiva. Non siete contento, pà?»
A Pasquale parve che gli si spezzasse il cuore: si alzò furioso e si mise a gridare:
«Anche questa ci voleva! Vai all'inferno, te e il malanno. Adesso che tutto va a male ti metti a queste idee. O dove li prendo i soldi? E poi devi stare con noi a crepar di fatica; devi provare anche tu che cosa vuol dire andare a male annata, che ci tocca vendere la vacca e l'anima per pagare!».
Pietro era calmo.
«L'ho già provato, pà. Voglio fare il prete.»
«E che cosa m'importa? Ci sputo sopra, io!»
In quella passava il curato che udendo gridare si fermò.
«Che ci avete, Pasquale, nella lingua?».
«E lei, e lei» riprese a gridare. «E lei dove pensa che li abbia i soldi per far fare il prete al mio figliolo?»
Il curato sapeva già tutto. Entrò in casa. Parlò tutta la sera con la sua voce buona e profonda che pareva che in quella casa ci fosse entrata la consolazione.
«Sentite Pasquale. Se l'anno vi è andato male, il Signore vi benedirà da un'altra parte. Lasciate fare a lui che ci vede meglio di noi. Quanto al vostro figliolo, se vuol fare il prete, lasciate che segua la sua strada. I soldi? Ma quelli vengono da soli, benedett'uomo. Ci sono io, c'è tutta la brava gente del paese che sarà contenta di aiutarvi. Io, qualcosa al sole ci ho. Vendo, Pasquale! Non dite male del Signore che accomoda tutto. Se il vostro figliuolo ha cuore ed intelligenza, sarà un buon prete. Una consolazione per voi che diventate vecchio, Pasquale. Lasciate fare».
Finché lo persuase e li persuase tutti per benino.
Quando fu ottobre lo accompagnarono un pezzo, tutto già vestito di nero, con gli occhi lustri e il cuore non sapevano se contento o piangevole.
Quell'anno lavorarono con ardore. Pasquale si sentiva rinascere. Respirava l'aria fresca dell'alba e pensava che il mondo è pur bello così come ce l'ha dato Dio, col sole, i prati e le montagne verdi e vecchie. Ora non pensava più che a suo figlio, quello che studiava in città sui libri che costavano tanti soldi e dentro c'era tanta scienza, che era vestito di nero come i signori, e voleva fare il prete.
Quando arrivavano buone nuove dalla città, gli pareva che quel figliuolo fosse la sua benedizione e ne parlava con un po' di rispetto, come se fosse diventato degli altri, e fosse meno suo figliuolo che del Vescovo e del Signore.
Passarono i mesi e s'avvicinava la bella stagione. La campagna progrediva bene per la mitezza dell'inverno. Ora c'era da temere maggio, con i suoi temporali e le sue grandinate che vi distruggono in un quarto d'ora il lavoro di un anno.
Ma Pasquale aveva fiducia, per via di quel figliuolo pretino che era un po' talismano.
Invece andò ancora male. I contadini, disperati, videro venir giù per mezz'ora buona i chicchi grossi e secchi, torcendosi le mani, muti, con le lagrime agli occhi. Tutto era finito. Quando la sera tornò il sole le donne piangevano e gli uomini bestemmiavano.
Pasquale no. A sua volta era calmo. S'era sentito schiantare; ma aveva ancora fiducia.
Disse ai suoi che erano tristi ed avviliti:
«Male è andata finora, andrà bene poi: animo ragazzi. Animo!».
Diceva così perché ora tutto era passato per lui in seconda linea: prima di tutto c'era il figlio prete.
Il padrone lo fece chiamare: era triste.
«Pasquale, devo vendere tutto. Cercatevi una casa, perché lì ci verrà quello che compra. Mi rincresce, Pasquale, per voi e per vostro figlio, ora che questi vi torna a casa».
Egli sorrise: «Ma cosa dice, signor padrone? Non fa nulla. Capisco. Fa bene, sa: fa bene».
Andarono ad abitare in una casa di sassi un po' fuori del paese. I figli andavano a lavorare negli stabilimenti del paese vicino: tornavano a casa solo la sera. Una volta trovarono a casa il pretino, venuto su per le vacanze e Pasquale trionfante che diceva a tutti
«Ecco vedete il mio figliuolo? Adesso ne sa come il dottore».
Però era diventato magro.
L'inverno fu triste. Talvolta non c'era da mangiare che pane. I piccoli piangevano e la madre sembrava l'Addolorata, che ha sette spade nel cuore.
Pasquale volle ad ogni costo andare a giornata. Faticava, s'incurvava, non mangiava più: ma volle lavorare. E sorrideva sempre, così come se pensasse agli angioli del Signore, che ogni uomo ne ha uno, povero Pasquale!
Quando si fu vicino a Natale, un giorno al curato arrivò una lettera dalla città. Gli scrivevano i superiori di Pietro, per pregarlo di avvertire la famiglia che il ragazzo aveva bisogno d'aria sana di montagna, che era molto malato, così giovine, e che forse, non si poteva dire, ma ...
Il curato si spaventò: pure a Pasquale non lo disse subito. Andò in città e si prese il ragazzo che aveva la faccia bianca come la neve e gli occhi infossati che guardavano con stupore doloroso. E, tutto il viaggio, tossiva, tossiva.
A Pasquale fecero credere che quell'anno era concesso che i pretini facessero Natale a casa loro, che era cosa naturale e non ci si doveva spaventare.
Ma Pasquale capì: diventò bianco e si sentì battere forte forte il cuore: un pensiero terribile gli attraversò la mente.
«Pietro!.… disse con un filo di voce…. Pietro!».
E gli baciò la mano scarnita. Gli pareva di morire, che il male fosse nel suo petto e lo rodesse e si facesse strada.
Una notte Pietro si sentì molto male.
Si mandò per il medico per il curato. E tutto era finito. L'angelo del Signore veniva sulla vecchia casa di pietra a prendere un angelo di carne.
Pochi giorni dopo, al funerale del figlio, Pasquale era invecchiato di vent'anni: curvo, stanco, muto.
Poi non fu più lui. Non aveva più fiducia, ora. Stava tutto il giorno seduto presso il fuoco, senza parlare, senza toccare cibo. Schiantato.
E se il curato quando lo andava a trovare gli diceva che si facesse coraggio, crollava il capo.
Gli pareva che tutto il mondo gli fosse caduto sul cuore e glielo schiacciasse: provava un desiderio cattivo che davvero gli si schiacciasse il cuore, e lo si torturasse e lo si crocifiggesse.
Non vedeva nessuno. Vedeva soltanto la lunga tonaca nera del figlio morto: lunga, lunga fino in fondo ad un abisso, nera come la notte di tutte le notti.
E gli pareva che avvolto in quella tonaca nera ci fosse il suo povero vecchio cuore.
Invece c'era un angelo: una sera uscì e stese la mano sui suoi occhi.
Pasquale si ricordò del Signore, che fa tutto per il meglio e che è padrone della vita e della morte. Se ne ricordò improvvisamente.
Sentì sui suoi occhi la carezza dell'angelo e pregò: con fervore, come se per la prima volta fosse a contatto con Dio.
Il giorno dopo si mise a letto.
Gianni Rodari 12 luglio 1936