di demon black » 21/07/2011, 20:57
1.
Avrebbe voluto poter fare di più, invece poteva solo stringerla a sé, carezzarle i capelli e sussurrarle parole di conforto all’orecchio, per non svegliare gli altri. Dividevano la tenda con altre due famiglie e, dopo un’altra sfiancante giornata di marcia, i loro compagni desideravano solo poter riposare, non essere costretti alla veglia dai singhiozzi della donna.
Ma i ricordi erano ancora freschi e le ferite aperte.
Quasi ogni notte l’incubo di quell’ultimo giorno, quando avevano lasciato la loro fattoria, tornava a visitare i sogni di sua madre facendola agitare e disperare nel sonno. Le urla, la paura, il mostro alato che strappava via le persone e le trascinava con sé in aria, per poi lasciarle cadere al suolo tra urla straziate. E il tonfo sordo dei corpi che sbattevano contro il terreno…
Anche a suo padre era toccata quella sorte.
Si abbandonò anche lei alle immagini del passato, non aveva senso opporvisi. Tanto, in un modo o nell’altro, l’avrebbero comunque trascinata indietro.
La loro casa era stata una fattoria non troppo distante dalla capitale. Era stato il regalo che un nobile aveva fatto a suo nonno per avergli coraggiosamente salvato la vita, e grazie a quel dono la sua famiglia aveva potuto affrancarsi da una vita misera e trovare una relativa tranquillità. La benevolenza del nobile era però andata oltre e aveva fatto in modo che il suo salvatore entrasse a far parte della schiera dei fornitori diretti del palazzo reale. Suo nonno era ormai morto da diversi anni, ma le cose non erano cambiate.
Quel giorno suo padre era tornato dalla solita consegna settimanale con la terribile notizia dell’avvicinarsi inesorabile dei Greubywyd. Lo aveva saputo di prima mano da un funzionario di palazzo a cui anni addietro aveva fatto un grande favore: il principe Averon si preparava a lasciare la capitale e avrebbe portato con sé parte della popolazione. La loro famiglia poteva essere tra questi, aveva lasciato intendere l'uomo, ma dovevano lasciare i loro possedimenti e raggiungere la città immediatamente; si sarebbe occupato lui di tutto.
La madre e la zia, pur recalcitranti, avevano cominciato a caricare il carro con cibo, abiti e coperte. Nel frattempo il padre e lo zio avevano abbattuto tutti gli animali che non avrebbero potuto portare con loro.
«Non saranno le nostre bestie a sfamare quei mostri!» avevano detto.
A preparativi ultimati avevano chiuso le finestre e sprangato la porta nell’intima e inconfessabile speranza di poter un giorno tornare, e si erano avviati.
In genere da casa loro non occorrevano più di un paio d’ore per arrivare alle porte della città, ma quel giorno il carico eccessivo aveva rallentato l’andatura dei muli e il tempo si era dilatato.
Poco dopo aver imboccato la strada maestra avevano incontrato Sōre, un loro vicino, e il minore dei suoi figli, Alec. Lo zio aveva raccontato per sommi capi quello che stava succedendo e li aveva sollecitati a seguire il loro esempio e cercare rifugio in città. Ascoltando le parole dello zio, Helena era stata colpita dalla piena consapevolezza di cosa quella partenza improvvisa significasse per lei e per la sua famiglia. Avrebbero perso tutto: la casa, gli amici, la loro intera vita. Il mondo, il suo mondo, si stava ribaltando. Cosa stava succedendo? E perché poi? Aveva guardato Alec, i suoi grandi occhi grigi, i lunghi capelli ricci e spettinati, la bocca carnosa, e un crampo improvviso le aveva attanagliato lo stomaco. Persa nei suoi pensieri non si era accorta subito che i carri erano ripartiti, e quando lo aveva fatto si era voltata indietro e aveva gridato:
«Alec, saluta Aran da parte mia e digli che… che…» ma non era riuscita a finire la frase, si era limitata ad alzare il braccio e a rispondere al gesto di saluto del ragazzo. Poi aveva avvicinato le gambe al petto, e con la testa nascosta tra le ginocchia aveva pianto.
L’orrore era arrivato quando erano ormai vicini alla meta.
Si erano uniti ad altri fuggitivi che come loro cercavano la salvezza tra le mura della capitale. Un gruppo non molto numeroso a dire il vero, ma capace comunque di attirare l’attenzione della bestia.
Helena aveva la testa appoggiata sul grembo della madre, sentiva le sue dita accarezzarle dolcemente i capelli, nel tentativo di consolarla, quando all’improvviso un verso raccapricciante aveva invaso l’aria e costretto tutti quanti a portare le mani alle orecchie, in un gesto tanto istintivo quanto inutile a schermare quegli stridii agghiaccianti. Si erano guardati intorno interdetti, ma non c’era nulla. Poi lei aveva gridato:
«Lassù!»
Tutti gli occhi si erano alzati verso il cielo, e l’avevano visto. Una specie di enorme uccello dal lungo collo nero e dai contorni stranamente sfumati si stava lanciando sul loro piccolo convoglio con le tozze zampe artigliate pronte a colpire. D’istinto si erano tutti gettati a terra o sul fondo dei carri, cercando di appiattirsi il più possibile, ma non era servito e un uomo era stato stretto nella morsa di artigli potenti, sollevato in aria e poi scagliato lontano. Le sue urla disumane avevano fatto alzare la testa ad alcuni tra i più coraggiosi, ma solo per vedere la vittima sfracellarsi al suolo. Ed ecco che la bestia era tornata immediatamente a reclamare un’altra vita, e poi un’altra ancora. Era stato a quel punto che suo padre, suo zio e qualcun altro tra gli uomini avevano cercato di opporre una qualche resistenza afferrando qualsiasi cosa potesse anche lontanamente servire da arma.
«Scappate! Scappate!» aveva urlato il padre agitando in aria una falce.
Helena non se lo era fatto ripetere e si era guardata intorno ansiosa, mentre il cuore le martellava all’impazzata nel petto e il ronzio del sangue le riempiva le orecchie.
«Là, corriamo di là. Vedo degli alberi!»
«Dove? Io non vedo niente!» aveva sentito qualcuno gridarle vicino.
«Seguitemi» e aveva iniziato a correre, ma per fermarsi dopo solo pochi passi nell’udire una voce familiare urlare il nome di suo padre. Si era voltata e lo aveva visto ondeggiare a mezz’aria appeso alle zampe letali del suo assassino.
Con gli occhi dilatati dall’orrore aveva sperato che fosse morto sul colpo, che quelle unghie nere gli avessero schiantato il cuore all’istante. Aveva dovuto usare tutta la sua forza per trattenere la madre, lottando contro di lei e il panico, e trascinarla verso il riparo del bosco, e forse verso la salvezza.
Avevano aspettato lunghe ore nascosti tra gli alberi anche dopo che la bestia sembrava essersene andata, senza il coraggio di avvicinarsi ai loro carri. Alla fine però la pietà aveva avuto il sopravvento sulla paura ed erano andati a recuperare i corpi martoriati per seppellirli. Helena aveva scavato a lungo con le mani e con un piatto, incurante del freddo, dei dolori e della fame. Aveva scavato e pianto. Pianto e scavato. E aveva giurato a se stessa che non si sarebbe arresa, che avrebbe difeso con tutte le sue forze la sua vita e quelle dei suoi familiari, proprio come aveva fatto suo padre.
Alla fine, esausti sia nel corpo che nella mente, erano risaliti sui carri ed erano ripartiti.
Quando erano giunti alle porte della città il buio era ancora profondo, e i pesanti battenti chiusi.
Si erano stretti nelle coperte e avevano finalmente ceduto alla stanchezza.
Quella notte sua zia aveva perso il bambino.
Il mattino successivo, dopo essere entrati all’interno delle mura erano andati a cercare un'anziana erborista amica del padre che era sempre stata gentile con loro quando facevano visita alla città. Le avevano raccontato tutto quello che era successo e lei, senza pensarci neppure un momento, aveva condiviso con loro zuppa e pane fresco, e aveva permesso loro di rifugiarsi nel retro della sua bottega; poi aveva fatto chiamare la levatrice e fatto visitare la zia.
Erano rimasti due giorni chiusi in quella piccola casa, in silenzio, svuotati di qualsiasi emozione che non fossero paura e dolore; poi, al pomeriggio del terzo giorno, qualcuno aveva bussato alla porta sul retro. Helena si era alzata guardinga e aveva aperto appena uno spiraglio. Pioveva.
«Helena!»
Aveva riconosciuto subito quella voce e senza neppure pensarci si era lanciata tra le braccia del ragazzo avvolto in una giacca pesante grondante acqua, e si era stretta a lui.
«Sei qui. Sei qui.»
Il ragazzo l’aveva accompagnata al riparo di una tettoia e l’aveva fatta sedere sulle sue ginocchia.
«Cosa è successo, Helena? Ho visto le tombe fresche sul ciglio della strada. Non hai idea della pena, al pensiero di non sapere come stavate. Ho provato a cercarvi nelle locande, ma non vi ho trovati e alla fine mi sono ricordato della vecchia che ogni tanto ci regalava i biscotti da bambini e l’ho cercata per chiederle se vi aveva visto.»
«Papà è morto. E anche lo zio.» Lo aveva detto tutto d’un fiato, guardando a terra. «Un mostro ci ha attaccato e loro lo hanno distratto mentre noi scappavamo. Si sono sacrificati per noi.»
«Helena» aveva sussurrato il ragazzo, abbracciandola ancora più stretta.
«Tu perché sei qui Aran? Siete venuti anche voi in città?»
«Sì, siamo arrivati ieri mattina. Papà ci ha messo un po’ a decidersi, ma alla fine si è convinto. Alloggiamo in una locanda vicino alle mura. Un tugurio e il proprietario ci sta salassando, ma non importa: tra poco non saremo più qui» aveva detto con un mezzo sorriso. Poi l’aveva guardata. «Io sarei venuto lo stesso. Anche da solo.»
«Grazie Aran, Sono felice che tu sia qui» aveva risposto Helena abbracciandolo. « Ma vieni dentro, dai. Sei fradicio e gli altri saranno contenti di vederti.»
Avevano lasciato la città al seguito del principe Averon tre giorni dopo.
Sua madre si era riaddormenta, così Helena si sciolse dall’abbraccio e in silenzio uscì dalla tenda. L’aria era fredda, ma il cielo sereno e brillante di stelle. La luna piena illuminava la notte e le permetteva di camminare anche senza una luce a guidare i suoi passi. Si diresse verso la tenda che Aran divideva con la sua e altre famiglie, ed entrò in punta di piedi. Sapeva che il ragazzo dormiva sempre vicino all’ingresso, girò lo sguardo attorno e vide una testa di capelli neri e ricci spuntare da sotto una coperta. La ragazza gli si avvicinò in silenzio e lo scosse leggermente.
«Aran» lo chiamò sottovoce. Un mugolio e il ragazzo si girò dall’altra parte. «Aran, svegliati.»
Gli appoggiò una mano fredda sul collo, facendolo rabbrividire.
«Cosa…? Ah, sei tu» disse il ragazzo. «Buongiorno» e l’attirò a sé posandole un bacio leggero sulle labbra.
Helena sentì un calore improvviso incendiarle il viso e un rimescolio alla bocca dello stomaco.
«È ancora notte fonda, ma c’è una cosa di cui voglio parlarti, vieni con me.»
«E non può aspettare fino a domani mattina?» chiese lui con uno sbadiglio.
«Non riesco a dormire.»
«E quindi hai deciso che non debba farlo neppure io.»
«Sì… cioè no. Hai ragione, scusami. Torna ai tuoi sogni, ne riparleremo domani.»
Aran alzò lo sguardo al cielo e si tirò su. Prese la pesante giacca posata lì accanto e, prendendole la mano, si avviò verso l’esterno.
«Andiamo, su.»
Camminarono verso il fiume oltrepassando alcune tende. Un uomo di ronda li vide, ma li riconobbe e fece finta di niente; si sedettero vicino all’argine, ai piedi di una giovane betulla. Aran circondò le spalle di Helena con il braccio e l’attirò a sé.
«Dunque? Cosa c’è di tanto urgente?»
Ma la ragazza non riusciva a rispondere. Lo sguardo fisso sul viso di lui.
«Ti amo. Lo sai vero?»
Aran sgranò gli occhi e la strinse ancora di più.
«Anche io ti amo» disse infine con voce roca sia per l’emozione che per il tentativo di parlare a voce bassa. «Avrei continuato a cercarti fin in capo al mondo se non ci fossimo ritrovati subito, in città.»
La baciò ancora e questa volta fu un bacio vero, profondo e lungo, che li lasciò entrambi senza fiato.
Rimasero per un po’ abbracciati a guardare le stelle e ad ascoltare lo scorrere del fiume e i rumori notturni che provenivano dall’accampamento.
«Sono contento che tu mi abbia svegliato per dirmi questo» disse infine Aran con un sorriso. «In effetti non c’era motivo di aspettare fino a domani.»
«A dire la verità, non ti ho svegliato per questo.»
«Ah no? Peccato!»
«Stupido» rise Helena. «Volevo parlarti di un’idea che mi frulla in testa già da qualche giorno. Mi sono resa conto di una cosa ultimamente: i miei occhi…» fece una pausa cercando le parole «vedono meglio di quelli delle altre persone. Riesco a scorgere gli oggetti molto prima di tutti gli altri. Mi è successo con il bosco il giorno in cui siamo stati aggrediti, e me ne rendo conto anche in questa situazione. Oggi ho visto il fiume molto prima di tutti voi. Anche adesso, dimmi cosa vedi tu qua attorno?»
«Cosa vedo? Hmm… il chiarore dei fuochi, l’ombra del fiume, gli alberi, le sentinelle che camminano…»
«E sull’altra sponda?»
«Sull’altra sponda? Le sagome degli alberi e… nient’altro, è troppo lontano.»
«Io vedo due guardie a distanza di tre o quattrocento passi l’una dall’altra. Una delle due è appoggiata a un tronco e sembra stia per crollare dal sonno. Vedo due gufi. Vedo un ragazzo e una ragazza seduti alla nostra destra, non si sono accorti di noi. Capisci? Riesco a vedere al buio quasi come in pieno giorno e…» si fermò, incerta.
«E…» chiese Aran stupito e curioso al tempo stesso. Non si era mai accorto di quella particolarità di Helena.
«E allora ho pensato che questa mia… qualità… potrebbe esserci utile in questa fuga.»
«Vuoi chiedere di essere arruolata fra gli apripista.» Non era una domanda la sua, ma un’affermazione. La conosceva da quando erano bambini e giocavano insieme in mezzo ai campi e sulle rive del fiume. Conosceva la sua testardaggine e la sua generosità: se pensava di poter essere utile, non si sarebbe mai tirata indietro.
«Sì. Mi sembra la scelta migliore. Potrei andare in avanscoperta o nelle retrovie per controllare che non ci inseguano. E potrei aiutare altri ad evitare quello che è successo a mio padre. Oppure procurare il cibo con la caccia. Capisci vero?»
«Vengo con te.»
«Dici sul serio?»
«Secondo te, ti lascio proprio adesso che finalmente ti sei decisa a dirmi che mi ami? Non pensarci neanche. Dove sarai tu, lì sarò io.»
Helena gli prese il viso tra le mani e lo baciò ancora e poi ancora e ancora. Lasciò che il desiderio percorresse le strade del suo corpo e diventò donna tra le sue mani, quella notte, sulla riva del fiume.
Il mattino successivo comunicarono alle famiglie la loro decisione. La madre di Helena pianse e si disperò, ma i suoi fratelli e la zia la sostennero. Per Aran fu più facile: il padre si aspettava già una decisione di quel tipo, quindi non fu colto di sorpresa.
Andarono insieme da un ufficiale e gli raccontarono del dono di Helena. Dopo essere stata sottoposta a una prova, fu arruolata immediatamente e assegnata a una squadriglia di cacciatori. Lei chiese che Aran potesse seguirla e le fu accordato. Era un ragazzo alto, forte e sveglio: sarebbe stato un ottimo soldato.
2.
DAL DIARIO DI VIAGGIO DEL PRINCIPE AVERON DEI NOIADOCHAS, A.C. 215, MESE DELL'AQUILA, TREDICESIMO GIORNO.
Mi si stanno chiudendo le palpebre... ma devo rimanere sveglio. È solo mezzodì e c'è ancora molta strada da percorrere oggi.
Le carovane sono ferme e ho deciso di concedere alla gente un po' di riposo: sono stanchi e affamati.
Sono passate appena due settimane, ma già la marcia rallenta. Almeno una persona su quattro è ferita e molti di meno conoscono le arti della guarigione. Siamo qualche migliaio, ma immagino che presto ci ridurremo.
Inizialmente avevo pensato che il caldo estivo ci avrebbe agevolato nella fuga, ma ora non ne sono più tanto sicuro. Non avremmo potuto portare abbastanza abiti da permetterci di affrontare l’inverno, e trovare il cibo sarebbe stato più complicato; ma con il caldo i malati e i feriti si disidratano rapidamente e l’acqua sembra non bastare mai, nonostante per ora ne troviamo in abbondanza grazie ai ruscelli che scendono dai monti. Le tende sono infestate dalle zanzare, i tagli si infettano e le febbri non guariscono.
Ho deciso di risalire le colline nella speranza di scorgere la fortezza di Hores, per essere certo di procedere nella giusta direzione, ma invano. Posso solo proseguire lungo la strada indicatami da mio padre, l'ultima volta che lo vidi, e sperare che avesse ragione.
I Greubywyd non ci hanno più attaccati: dopo quel terribile giorno sembrano essersi dimenticati di noi. Sembra quasi che vogliano lasciarci scappare, che abbiano perso interesse; alcuni lo pensano, ma sono degli illusi. Le bestie stanno solo aspettando, temporeggiando, per fare in modo che la caccia non finisca troppo presto. Come il gatto che gioca con l'uccellino ancora vivo, perché l'uccellino morto non gli darebbe più nessun divertimento.
Il loro sadico istinto però li ha portati a commettere un errore. Ci hanno permesso di raggiungere la foresta ed entro sera il campo sarà al riparo degli alberi. Non oseranno attaccarci dall'alto sfidando le fronde, e se lo facessero saremmo pronti a rispondere. Forse questo basterà, forse ci permetterà di raggiungere Hores in tempo... Loro non sanno che esiste, non lo possono sapere. Quando saremo dietro le vecchie mura saremo al sicuro.
Ogni tanto mi scopro ad accarezzare la spada. Passo distrattamente le dita sull'elsa dorata senza nemmeno accorgermene. La vista di quest'arma mi infonde coraggio. Era la spada di mio padre in fondo, la leggendaria Spaccapietre, la spada indistruttibile appartenente al padre del padre di mio padre, tramandata nella nostra famiglia di generazione in generazione. Molti sono convinti che finché questa spada sarà con noi i Greubywyd non potranno mai annientarci. Finché l'avrò il popolo mi ubbidirà.
Ho appena congedato Ezdo, una delle mie nuove guardie personali e la più rapida delle mie staffette; sto scendendo per ordinare di riprendere la marcia, non è saggio rimanere in un luogo così esposto. Devo ricordarmi i loro nomi, tutti i loro nomi, sento che è importante...
Ezdo è solo un ragazzino, poco più che sedicenne e ancora inesperto, ma sta affrontando il suo compito con dedizione e ascolta sempre i consigli. Se sopravviverà potrebbe diventare un buon soldato.
Ezdo e gli altri mi hanno riferito che tra i profughi vi sono molti esponenti della casta sacerdotale, sacerdotesse di Izaera soprattutto, chissà perché ma questo non mi stupisce. A dirla tutta non mi stupirei nemmeno se fra loro ci fosse anche la Gran Sacerdotessa, sotto mentite spoglie.
Ma niente di tutto questo ha importanza ormai. Abbiamo archi e lance a sufficienza, fabbri per riparare gli zoccoli dei cavalli e gli utensili, giovani in forze che badano agli animali e a montare il campo di notte e donne per fare in modo che la nostra razza non si estingua, per far sì che un giorno ci sia qualcuno a ricordarci.
Quando raggiungeremo Hores saremo al sicuro. Solo io posso sapere come raggiungerla, me lo ha detto mio padre, prima di mandarmi via. Chissà se è ancora vivo... difficile, spero che abbia dato del filo da torcere ai suoi aguzzini e che ne abbia portati molti con sé nell'aldilà, o dovunque sia che quelle bestie vanno quando le uccidi. Glielo auguro, e auguro pace alla sua anima, mentre io rimango qui sulla terra, a sopravvivere.
3.
I suoi occhi blu riflettevano il sole e Ethan pensò che mai era stata così bella.
Cecil si voltò e quegli occhi lo fissarono imploranti. «Dimmi che ci salveremo. Ti prego Ethan, dimmi che ci salveremo.»
«Non lo so, sorellina. Lo spero.»
Ethan e Cecil, sedici anni, condividevano tutto sin da quando erano venuti alla luce. Erano gemelli, identici in tutto, se non nel fatto che uno era un ragazzo e l'altra una ragazza.
Capelli lunghi e scuri e due occhi blu come una notte serena; per lui un volto spigoloso, pronto per diventare quello di un uomo, per lei un viso più dolce e aggraziato, pronto per essere donato a un altro uomo.
«Dove ci stanno portando? Nemmeno ci hanno fatto salutare nostro padre!» la nota implorante era svanita e il carattere forte di Cecil era tornato a galla.
«Sai perfettamente perché, quindi non ti lamentare. Ci stanno portando al sicuro.» Ethan scosse la testa e spinse avanti la sorella. «Muoviti o ci lasceranno indietro.»
Cecil spostò una ciocca di capelli dagli occhi. Era sudata, arrabbiata, spaventata e affamata. Tutto ciò non giovava al suo carattere già pessimo.
«E che mi lascino indietro! Camminare come mendicanti in mezzo a poveracci e malati. Oh dei, che orrore!»
Davanti a lei un uomo sanguinava copiosamente da un fianco e una donna vestita di una tunica verde sporca di terra stava tentando di bendarlo. L'esclamazione le costò un'occhiataccia. «Vedremo se ti disgusterà lo stesso quando capiterà a te.»
«Che cosa?»
Ethan la spinse via, verso il resto degli esuli.
«Hai sentito che mi ha detto quella vecchiaccia?»
«Non era una vecchiaccia! Sai che era una sacerdotessa e stava curando un ferito. Tu e la tua sensibilità vi attirate sempre buone parole.»
Cecil mise il broncio e per la felicità di Ethan si azzittì. Adorava sua sorella, lei era la sua metà; ed era tanto scorbutica e forte, quanto lui era gentile e sensibile. Erano due facce della stessa medaglia e come tali costretti a stare insieme. Costretti da quel maledetto vincolo che la madre aveva loro imposto in punto di morte. Ovviamente lei non poteva sapere che si sarebbe avverato, era una circostanza che prevedeva parole solenni e lei le aveva pronunciate più come rituale che perché ci credesse davvero. Ma era successo: Ethan e Cecil non potevano allontanarsi l'uno dall'altra più di un migliaio di passi. Assurdo. Assurdo e decisamente scocciante.
Negli ultimi anni si erano abituati alla cosa, ma all'inizio era stato un inferno.
Ora semplicemente prendevano atto della loro triste condizione e tentavano di sopravvivere in quella guerra.
Il gruppetto di fuggiaschi a cui si erano aggregati si fermò. L'uomo sanguinante aveva bisogno di cure e la sacerdotessa aveva imposto una sosta.
«Ma così perderemo gli altri!» era stato un uomo emaciato e graffiato in volto a parlare.
«Siamo in migliaia, credi propri che non li ritroverai? Quest'uomo era già ferito quando siamo partiti e ormai il taglio si è infettato.»
Non appena la donna aprì le bende fatte poco prima Ethan volse gli occhi dall’altra parte.
Cecil invece colmò il suo sguardo orripilato di quella scena. «Forse dovreste inciderla non credete? Quel... quel bubbone disgustoso è pieno di pus e di certo non gli fa bene.»
Altra occhiataccia, ormai la sacerdotessa era decisamente esasperata. «Pensi di essere un cerusico? Pensi di poterlo curare meglio di me?»
Ethan volse gli occhi al cielo. Perfetto. Sfidare Cecil era proprio quello che ci voleva.
«Ebbene sì, cara la mia sacerdotessa.» La giovane odiava i sacerdoti dal giorno in cui la sua famiglia le aveva imposto di vivere segregata in un tempio. Ethan era stato costretto a seguirla per via del vincolo, ma fortunatamente non doveva assistere alle lezioni. Ne era uscita quattro anni prima e per entrambi era stato un enorme sollievo.
«Qualcuno ha un pugnale o devo cercarmelo da sola?» L'uomo che voleva proseguire le consegnò una piccola lama. «Mmm è perfetto. Però avrei bisogno di un fuoco. Se foste così gentili...» Il suo tono invece era tutto, tranne che gentile. Era tagliente, scorbutico e irritante, ma la gente le ubbidiva, perché lei era pratica. Dava soluzioni e risolveva problemi.
“È proprio come nostro padre” pensò Ethan.
Dieci minuti dopo una debole fiammella veniva tenuta in vita dall'uomo graffiato e dalla sacerdotessa in verde, il cui nome era Alenia.
«Ora, qualcuno ha un recipiente?» Una ragazzina si fece avanti da dietro le altre persone che assistevano alla scena e porse a Cecil una scodella. «Mettici dell’acqua, poi mettila sul fuoco e falla bollire» le disse mentre si strappava l’orlo della gonna. Oddio lei adorava quel vestito!! Che faceva? «Metti a bagno queste.»
Poi iniziò a trafficare attorno al malato. Tolse tutte le bende vecchie, ripulì alla meno peggio la pelle attorno alla ferita e assegnò alla giovane della scodella il compito di tergere il volto sudato del ferito. Finalmente l'acqua iniziò la bollitura. Cecil passò il pugnale sul fuoco più volte fino a che non divenne nero.
«Mordi questo.» Allungò all'uomo un legnetto ed egli lo strinse, come se fosse l'ultima cosa rimastagli sulla terra. Ethan notò che il ferito non aveva mai urlato, pianto o si era lamentato in altri modi. Era immobile, il suo volto sofferente e solcato da cicatrici fissava Cecil come fosse una dea. Quella al fianco era decisamente la ferita più grave, ma Ethan ne vide anche di più lievi alle gambe e una alla tempia destra.
L'operazione iniziò. Cecil incise con un taglio preciso e poco profondo il bozzolo pulsante di pus, prontamente bloccò il flusso con gli stracci bolliti e caldi. L'uomo digrignò i denti e Ethan fu certo di sentire uno scricchiolio.
Quando la giovane con gesti rapidi ripulì a fondo la ferita, la maggior parte degli astanti si voltò.
Ethan riportò lo sguardo sulla la sorella, sudata e stanca, dopo che questa già aveva applicato delle bende "pulite" e l'uomo tornava ad alzarsi.
«Grazie mia giovane dea.»
«Di nulla. Vi prego, le bende messe a mollo» prese le bende nella scodella e le strizzò «dovranno asciugarsi. Tenetele attaccate alla vostra sacca, nel sole del mattino si asciugheranno in una baleno. Vi cercherò di nuovo oggi pomeriggio, la ferita che avete al fianco non è trascurabile come le altre.»
Detto questo Cecil se ne andò trascinandosi dietro il gemello. Probabilmente aveva salvato la vita a quell'uomo e nemmeno se ne curava. Mentre veniva tirato in malo modo Ethan ebbe il tempo di sfiorare con lo sguardo la ragazza della scodella. Aveva strani occhi, intravisti appena mentre timidamente passava il contenitore a Cecil, ma così belli che lo avevano incatenato. Scacciò il pensiero della giovane e tornò alla sorella che gli stava stritolando il braccio.
«Perché l'hai aiutato se un attimo prima hai gridato “che orrore”?»
«Ho gridato “che orrore” perché quella sacerdotessa non aveva di certo fatto un buon lavoro. Al tempio di Otter, vengono insegnate per prima cosa le arti della medicina. Io ne conosco solo le basi, ma quella sacerdotessa non conosceva nemmeno quelle! Diciamo che comunque posso concederglielo, dalla tunica era evidente che non era una sacerdotessa della medicina, ma di Izaera.»
«Il Dio della natura?»
«Dea... sì proprio lei.»
Rimasero in silenzio e insieme al loro gruppetto si rimisero in marcia.
4.
Erano giorni che camminava a fianco di persone che neanche conosceva e ormai la sua vita di prima le sembrava solo un miraggio lontano.
Con un sospiro Talitha cercò di ricordare i giorni che aveva trascorso nel tempio di Izaera. Era stata abbandonata, a pochi mesi di vita, davanti al tempio della Dea e messa subito sotto la custodia della Gran Sacerdotessa per via del suo aspetto particolare: capelli rossi come il fuoco, un occhio azzurro come l'acqua e l'altro verde smeraldo come la natura. E a mano a mano che cresceva erano stati proprio i poteri legati a quei tre elementi a renderla speciale rispetto alle sue coetanee: era molto più dotata di tutte loro. Questo, oltre ai privilegi che le venivano concessi, aveva avuto come conseguenza un certo isolamento: non era mai stata maltrattata ma neanche realmente amata. Era semplicemente considerata un contenitore; il suo valore risiedeva nei suoi poteri non nei suoi sentimenti. Man mano che cresceva tutto questo le fu sempre più chiaro.
Essere la protetta della Gran Sacerdotessa aveva avuto i suoi vantaggi, certo, ma ora ne pagava anche le conseguenze: era risaputo che sarebbe stata lei ad occupare il suo posto una volta che questa fosse venuta a mancare. E lei sapeva che, ora che la Gran Sacerdotessa era sparita durante l’attacco, le consorelle del tempio le avrebbero chiesto di assumere la carica rimasta vacante, ma lei non se la sentiva, non voleva.
A quindici anni aveva solo una vaga idea di quello che “lei” voleva per se stessa, figuriamoci se poteva preoccuparsi di quello che volevano gli altri!
Non aveva mai avuto nessuna opportunità di scelta perché, nel momento stesso in cui era stata abbandonata davanti al tempio, era diventata “proprietà” della Dea Izaera e avrebbe dovuto servirla per il resto dei suoi giorni, ma lei non era una cosa, era una persona, e come tale aveva dei desideri, dei sogni.
Era stato questo il motivo per cui, nel caos generato dal secondo attacco nemico, Talitha si era tolta la tunica verde, simbolo di appartenenza al suo ordine, e coperta da un mantello con un cappuccio ben calcato sulla testa era scappata mischiandosi con il popolo in fuga.
Non riusciva a condividere il dolore delle persone che la circondavano, non condivideva la loro disperazione perché, per lei, quell'attacco aveva significato la concretizzazione di un sogno. “E adesso, devo solo vivere il resto dei miei giorni cercando di non incrociare nessuna tunica verde”, pensò con una smorfia sarcastica.
Un crampo allo stomaco la fece tornare alla realtà! Guardò la scodella vuota che aveva in mano… sì, era ora di cena, decisamente.
Il suo sguardo si posò su una ragazza che, poco più avanti, stava attirando l’attenzione di tutti quelli che la circondavano. Guardò meglio e si accorse che vicino a lei c’era anche un ragazzo che... “sono identici, sono dei gemelli!” disse a se stessa.
Guardandoli, rimase affascinata dai due, specialmente da lui.
Le guance di Talitha divennero dello stesso colore dei suoi capelli per la piega che stavano prendendo i suoi pensieri. Essere cresciuta circondata da sole donne, aveva solo accresciuto la sua già prepotente timidezza verso il genere maschile.
La ragazza cominciò a impartire ordini a destra e a sinistra, Talitha si avvicinò per curiosare, per vedere con chi se la stesse prendendo, ma si bloccò non appena scoprì che la vittima era una sacerdotessa di Izaera. Si calò il cappuccio sulla testa, se l'avesse riconosciuta, per lei e per la sua nuova vita libera, sarebbe stata la fine!
La ragazza che prima stava discutendo con la sacerdotessa chiese un contenitore, lei guardò la scodella che stringeva tra le mani e si fece avanti. L’altra le ordinò di assisterla, senza nemmeno rivolgerle un secondo sguardo.
“Chiedere è passato di moda?” pensò stizzita.
Il gemello si avvicinò e, se possibile, Talitha diventò ancora più rossa… fortuna che il cappuccio la nascondeva…
Dopo che la ragazza ebbe curato l’uomo e sgridato in malo modo, e a ragione, la sacerdotessa che lo accudiva, le disse che più tardi l'avrebbe chiamata di nuovo per cambiare la medicazione e curare anche le altre ferite del suo assistito, quindi si mise a parlare con il fratello ignorandola del tutto.
«Certo, come no? Ho sempre desiderato essere ai vostri ordini!» le rispose risentita Talitha. «Ho sentito che prima affermavate che avete studiato nel tempio del Dio Otter ma che poi siete andata via, vero? Se vi foste trattenuta un giorno di più, non vi avrebbe fatto male perché credo che abbiate abbandonato poco prima che insegnassero come trattare con le persone!»
Anche se l’avevano sempre trattata come se fosse un miracolo vivente per via dei suoi poteri, mai si sarebbe sognata di comportarsi con l’arroganza di quella ragazza.
Alenia, la sacerdotessa sgridata poco prima, si avvicinò curiosa a Talitha e le chiese se per caso si fossero già conosciute.
«Mi spiace ma credo che mi stiate confondendo con qualcun altro» le rispose lei calcando ancora di più il cappuccio sul viso.
«Ne sei sicura? Il modo in cui hai risposto a quella ragazza impudente e sfacciata…»
«Sarà pure sfacciata e impudente, ma aveva ragione sul fatto che lo stavate uccidendo quell’uomo invece di salvargli la vita!»
La sacerdotessa strinse le labbra per trattenere una rispostaccia. «Ragazzina attenta a come parli e con chi lo fai!»
«Questo vale per entrambe!» Talitha si allontanò ancora di più.
“Accidentaccio! C’è mancato poco!” pensò sbattendo un piede in terra per la frustrazione.
5.
“Si continua a viaggiare. Ormai sono talmente stufa di farlo che sono sempre tentata di esplodere e urlare! È così assurdo rivolere indietro la propria vita? È così egoista volere ancora le mie cose e... i miei vestiti? I miei splendidi, adorabili vestiti! Sono la figlia di un colonnello accidenti e devo camminare alla stregua di una contadina! Sono arrabbiata, sporca, affamata e Ethan non fa niente per migliorare la situazione! Possibile che debba sempre fare tutto io? È un inetto.”
«Il fatto che io ti senta non cambia nulla vero?»
Un sorriso cattivo si allargò sulla belle labbra di Cecil.
«Mmm… no, direi di no.»
“La sua malefica mente era aperta solo per farmi carpire ogni suo segreto. Come posso volerle sempre stare accanto nonostante il suo pessimo carattere? È solo la maledizione di nostra madre che ci lega o qualcos'altro? Anche l'affetto fraterno fa fatica ad attecchire nel cuore arido di Cecil. Eppure ha aiutato quell'uomo.”
«Non chiudermi i tuoi pensieri Ethan. Potrebbe venirmi il dubbio che tu voglia nascondermi qualcosa.» Ancora quel sorriso dolce e accattivante in cui molti erano caduti e su cui Cecil aveva basato la sua vita.
«Io non ti nascondo nulla!»
Vedere la sua irritazione era il gioco preferito della sorella, ma Ethan era stufo marcio.
«Fra poco ci fermeremo per la notte. Vammi a cercare quella ragazzetta.»
«Ragazzetta? Avrà la tua età! Se non addirittura più anni di noi!»
«Oh dèi. Ethan sei noioso e scemo come sempre. Se l'età fosse solo un numero non avrebbe alcun significato non trovi?»
«Mi sembra di parlare con un oracolo! Potresti spiegarmi che vuoi dire?»
La giovane gli diede un buffetto sul viso. «Significa che sei scemo e basta. Vai, veloce! Ah... e non allontanarti troppo!»
Ethan si allontanò brontolando. “O dèi è insopportabile! Oggi più del solito.”
Nel girovagare per il campo approntato nella foresta vide una donna e un bimbo che aveva visto parlare con la ragazza.
«Mi scusi mia signora, saprebbe dirmi dove posso trovare la giovane che era con voi quest'oggi?»
La donna rise di gusto. «Signorino, le buone maniere non si addicono molto alla situazione. Comunque dovrebbe essere andata al torrente, l'ho vista andare in quella direzione.»
Ethan individuò il torrente e poi si voltò a cercare la sorella. Per una volta Cecil gli aveva agevolato le cose e se ne stava seduta poco lontano. La vide agitare la mano e sorridere.
“Che nervi! Solo lei può mandarmi in escandescenza in questo modo. Mmm il torrente è qui, e lei?”
All'improvviso fu letteralmente investito da una vampa di calore. Barcollò all'indietro e nel farlo tentò di aggrapparsi al tronco di una pianta sulla sponda. Purtroppo mancò in pieno il sostegno e il suo sedere urtò dolorosamente per terra. Ma che diamine era stato?
Una risatina. Era lì allora! Possibile che fosse stata quella ragazza a provocare l'ondata calda che l'aveva travolto?
Ethan si avvicinò quatto quatto al punto da cui sentiva i rumori e la vide. Era davanti a lui e nuotava agilmente nell’acqua poco profonda.
“I suoi capelli!” Al pomeriggio li teneva nascosti nel cappuccio, ma in quel momento la luna li illuminava debolmente. Erano di un rosso acceso e Ethan ne rimase quasi abbagliato.
Stava godendo della visione quando la ragazza balzò sulla riva come un fulmine. Era nuda. Ethan rimase pietrificato.
Altra vampata, questa volta riuscì a non cadere. Ma che diavolo era?
Vide la giovane raccogliere gli abiti e poi notò una cosa essenziale, era asciutta. Capelli, pelle, abiti appena indossati, tutto era completamente asciutto.
Dentro di sé, suo malgrado, sorrise. La giovane non era certo sciocca come Cecil voleva credere.
Quando la ragazza si accorse di lui arrossì violentemente. «Da quanto… quanto tempo sei lì?»
“Eh eh, da un po’ tesorino.”
«Prima non ci siamo presentati. Io mi chiamo Ethan.»
Allungò la mano e quella piccola e morbida di lei la strinse appena.
«Mi… mi chiamo Ta…» tentennava e Ethan dentro di sé continuava a sorridere. Era la prima volta che una ragazza arrossiva davanti a lui, generalmente sua sorella lo faceva apparire uno stolto anche agli occhi del gentil sesso. «Mi chiamo… i miei amici mi chiamano Tali.»
«Bene Tali, piacere di conoscerti! Mia sorella Cecil ti stava cercando per la medicazione di quell’uomo. Vieni, ti porto da lei» e si avviò verso il campo, senza però lasciare la presa sulla sua mano. Era piccola, delicata e calda. Sentiva il cuore in gola a quella prossimità e gli dispiacque quando lei si divincolò e il contatto si interruppe.
Evidentemente la giovane non gradiva certe confidenze.
«Tutto a posto?» La sua voce era dolce, molto diversa da quella di Cecil, che era perentoria e tagliente come una lama.
«Prego?» chiese lui.
«È tutto a posto? Non vorrei averti offeso.»
«Offeso? Io?» Era abbattuto dall'abbandono della sua mano, ma quel tono così preoccupato leniva ogni suo sconforto. «Non preoccuparti Tali, mi sento bene come non mai.»
Il suo sorriso voleva essere incoraggiante e forse ce l'aveva fatta.
«Si può sapere dove sei stato? Era forse dall'altra parte del mondo?»
La solita Cecil.
«Ragazza, mi serve il tuo aiuto.»
«Mi chiamo Tali.»
«Mi serve il tuo aiuto, non il tuo nome.»
L'efficienza in persona, ecco cos'era Cecil. Efficienza, praticità ed ego, l'ultimo smisurato.
Cecil tastò leggermente la ferita. L'uomo era disteso su una coperta, prestata da qualche profugo caritatevole. Appena Cecil sfiorò il taglio il ferito mugolò. «Riuscite a parlare?»
«S… sì.»
Ethan notò che la sorella era preoccupata. «Allora potete dirmi come ve la siete procurata?»
«U… uno di quegli uc… uccellacci maledetti mi ha colpito.»
«Capisco.»
«Cecil che succede?»
«Credo che quei mostri posseggano un qualche tipo di veleno. La ferita non è affatto migliorata, anzi pare peggiorare. Si è infettata di nuovo e l'infezione si sta estendendo. La ripulirò, ma credo occorra un rimedio che io non conosco ancora.»
Tali si avvicinò mesta a Cecil e insieme ripeterono le azioni del pomeriggio. Bende calde, acqua, scodella. Tutto come la volta prima, ma lo sguardo del ferito era più chiaro e Ethan poté riconoscere nei suoi lineamenti e sotto la barba, il volto di un giovane.
«Quanti anni avete, signore?»
L'uomo volse lo sguardo verso Ethan. «Ventisette. Sono… sono un fabbro. Mio padre mi ha spinto a fuggire perché ero il più giovane. Lui e i miei quattro fratelli sono rimasti.»
«Rimasti a fare cosa? Morire?»
«Curatrice, i tuoi modi sono un po’ troppo diretti.»
Cecil rise. «I miei modi sono diretti quando la situazione lo richiede. Quindi ora vi dico, fabbro di ventisette anni, se volete sopravvivere e ritrovare vostra moglie è meglio che stiate zitto e che mi diate del voi. Grazie.»
«Non sono sposato.»
Gli occhi di Cecil lo fissarono per un secondo e poi tornarono sulle mani che veloci si muovevano sul suo fianco. La cura proseguì in silenzio.
«Grazie... Tali.»
Cecil congedò la giovane. Vide Ethan seguirla e dentro si sentì stanca come non mai.
«La vostra età, curatrice?»
«Smettetela, non sono una curatrice. Ho sedici anni e me ne sento almeno trenta» sbuffò.
«Credo che la guerra faccia questo effetto.»
Gli occhi di Cecil guardarono quelli scuri del ferito. Anche lui pareva avesse il doppio dei suoi anni. Forse era vero, forse la guerra faceva invecchiare dentro senza che questo potesse essere cambiato.
«Sì, ma avrò mai più i miei sedici anni? Adoravo i bei vestiti e pavoneggiarmi davanti a mia madre mentre glieli mostravo. Poi mia madre è morta e ho smesso di pavoneggiarmi» rise. «Ma non ho smesso di amare i bei vestiti. Li sfoggiavo alle feste ufficiali dove mio padre e mio fratello maggiore facevano sfoggio delle loro abilità adulatorie. Adulare i nobili e i loro soldi era il loro passatempo.» Risero entrambi.
“Che mi succede? Perché racconto queste cose a un perfetto sconosciuto?”
6.
Mentre tutti si preparavano a dormire, Talitha si era messa in cerca dei due gemelli. Era ora di cambiare la medicazione e la ragazza antipatica l'attendeva ma, come una stupida, si era scordata di chiedere loro il nome! L’unica cosa che poteva fare, per trovarli, era andare alla cieca tra le tende.
Molti dei fuochi che erano stati accesi per preparare i pasti erano oramai spenti. Dalle tende si sentivano provenire i singhiozzi dei bambini che piangevano chiedendo ancora qualcosa da mangiare. Per fortuna finora avevano sempre viaggiato risalendo il corso di un largo torrente, e quindi almeno l’acqua non mancava. Era lo stesso torrente che scendeva dalla montagna per arrivare fino alla città che avevano abbandonato diverse settimane prima.
La ragazza arrivò al torrente e, guardando le sue acque, si ricordò improvvisamente che era da tempo che non si faceva un bel bagno. Dopo essersi guardata intorno, alzò i palmi delle mani e invocando i suoi poteri, creò una fitta barriera di rami e arbusti.
Aveva già iniziato a spogliarsi quando si bloccò all’improvviso per un rumore.
“Cos’è stato?”
Da sotto un cespuglio uscì uno scoiattolo e Talitha scoppiò a ridere per la sua sciocca paura. Finì di spogliarsi e si tuffò; sentirsi abbracciare dalle acque del torrente le diede forza e amore... la natura era sempre stata la sua unica amica e, ogni volta che entrava in contatto con essa, era come sentire l’abbraccio protettivo di qualcuno che l’amava.
Ogni sacerdotessa di Izaera aveva un elemento predominante, che veniva individuato durante l’apprendistato. Poi una volta che l’addestramento finiva, al collo delle sacerdotesse veniva posto un ciondolo contenente il proprio elemento. Ogni tanto era necessario che la sacerdotessa rinnovasse la propria unione con tale elemento in modo che i suoi poteri venissero rigenerati, e ciò avveniva tramite contatto diretto. Una delle abilità di Talitha era che non aveva bisogno di quella rigenerazione perché lei era un contenitore della natura e non un suo tramite come le altre sacerdotesse.
Con un sospiro si allungò e iniziò a nuotare… i ricordi dei giorni passati al tempio si affacciarono alla sua mente con più nostalgia di quanto credeva potesse provare e questo la stupì non poco.
Ora che aveva riacquistato la libertà sentiva la mancanza del tempio? No, mancanza non era la parola giusta… era la sicurezza rappresentata da quelle quattro mura ciò le mancava in realtà. Il non dover nascondere i suoi capelli, il non dover continuamente sfuggire gli sguardi dei sacerdoti e delle sacerdotesse che incontrava… questo le mancava della sua vita al tempio.
Ma la libertà… già, la libertà di poter anche solo scegliere se tenere i capelli legati oppure sciolti, non aveva prezzo! E se per ottenerla avrebbe dovuto passare la sua vita in fuga, beh, lo avrebbe fatto.
Libertà… anche lei l’avrebbe conquistata, esattamente come i Greubywyd! Si è sempre sentita vicina a loro, da quando li aveva visti per la prima volta cinque anni prima…
La Gran Sacerdotessa l’aveva portata con sé nel ghetto dei reietti perché sapesse la verità e vedesse la realtà con i suoi occhi. E lei aveva visto. Esseri grandi, piccoli, alcuni deformi altri bellissimi, ma tutti inevitabilmente spaventosi e sofferenti e tristi. Era stato allora che aveva preso la sua prima decisione da individuo ribellandosi a quello che gli altri avevano scelto per lei.
Al solo ricordo di ciò che aveva visto quel giorno, alcune lacrime le scesero sulle guance. “Ora basta!” si rimproverò per il corso preso dai suoi pensieri, non era quello il momento per provare compassione. S'impose di pensare ad altro e l’immagine di un ragazzo dai capelli neri e dagli occhi blu si affacciò alla sua mente. Avvampò immediatamente e s’immerse fin sotto il pelo dell’acqua. Che stupida, e poi non sapeva neanche come si chiamava! Il pensiero del ragazzo le ricordò all’improvviso l’uomo ferito e la ragazza antipatica.
La medicazione!
Con un balzo riemerse dall’acqua e con un movimento della testa portò indietro i capelli. Si doveva sbrigare. Mentre lei si crogiolava, c’erano malati che avevano bisogno di cure perché, anche se non condivideva i sentimenti di quelle persone, lei rimaneva comunque una sacerdotessa e doveva fare quello che era in suo potere per alleviare il loro dolore, iniziando dal portare le bende pulite alla gemella.
Sulla sponda del torrente si accorse di non avere nulla con cui asciugarsi, cosa naturale d’altronde visto che il bagno non era previsto. Si guardò intorno e invocò il fuoco dentro di sé alzando la sua temperatura corporea, e facendo così evaporare l’acqua dalla sua pelle e dai suoi capelli.
Si rivestì in fretta e, con un gesto della mano, eliminò la barriera naturale. Una voce improvvisa e imprevista la fece sobbalzare. Era il ragazzo, il gemello dell’antipatica! Da quanto tempo era lì? Cosa aveva visto?
«Da quanto… quanto tempo sei lì?» “Oh Izaera! Fa che non sia rimasto all’interno della barriera!”
Lui si avvicinò di più e si presentò senza rispondere alla sua domanda.
«Prima non ci siamo presentati. Io mi chiamo Ethan» disse, porgendole la mano.
Deglutendo a vuoto, Talitha ricambiò la stretta. «Mi… mi chiamo Ta…»
“Che sciocca stavo per dire il mio vero nome, senza pensarci.”
Il modo in cui lui le stringeva la mano e il calore che le trasmetteva, le davano una piacevole sensazione di sicurezza. «Mi chiamo… i miei amici mi chiamano Tali.»
“O almeno così mi piacerebbe che mi chiamassero se avessi degli amici” aggiunse tra sé.
«Bene Tali, piacere di conoscerti! Mia sorella Cecil ti stava cercando per la medicazione di quell’uomo, vieni, ti porto da lei» e, sempre tenendole la mano, la ricondusse verso il centro dell’accampamento.
Talitha avrebbe voluto dirgli che poteva camminare anche senza che lui la tenesse per mano ma qualcosa le bloccava le parole sulle labbra. Passarono accanto a un fuoco che non era ancora stato spento e il suo riflesso sui suoi capelli attirò lo sguardo di un soldato che era lì vicino. “Il cappuccio, maledizione!” pensò immediatamente.
Tolse di scatto la mano dalla stretta di Ethan. «Aspetta Ethan!»
Si tirò su il cappuccio e, allo sguardo interrogativo del ragazzo, rispose: «Scusa… il cappuccio. Bene continuiamo, fai strada!»
Lui le porse di nuovo la mano ma questa volta lei la ignorò arrossendo vistosamente e abbassò lo sguardo.
«Da questa parte, seguimi !»
Ma percepì nella voce del ragazzo una nota di fastidio che le fece alzare di nuovo gli occhi.
«Tutto a posto?» domandò incuriosita.
Quando arrivarono, Cecil, fu antipatica come sempre. “Ma come fa Ethan a sopportarla?” si chiese Talitha.
Il malato raccontò che erano stati i Greubywyd ad averlo ferito e Cecil gli spiegò che le sue ferite erano gli effetti del loro veleno.
Talitha avrebbe voluto dire la sua, ma si limitò a stringere le labbra e a rimanere in silenzio.
Dopo aver medicato il ferito Talitha si allontanò il più possibile, seguita da Ethan. La ragazza gli lanciò un’occhiataccia.
«Di certo la gentilezza non è il punto forte di tua sorella, vero? Sei anche tu così?» chiese stizzita.
Lui l’afferrò per un braccio, per farla voltare verso di lui, e le rispose: «Ti sembro come lei?»
«In fondo siete gemelli» ribatté la ragazza con indifferenza, ma poi, rendendosi conto di essere stata ingiusta proseguì: «Scusami, non volevo, è che mi ha innervosito e allora…» Fece una risatina nervosa. «Cecil deve essere contagiosa!»
Anche Ethan scoppiò a ridere. «Concordo in pieno! Solo lei riesce a mettere sempre tutti di cattivo umore.» Un’altra risatina. «Posso accompagnarti alla tua tenda?»
«S… sì, se vuoi.»
Passando accanto alla tenda che gli adepti del tempio usavano per dormire, Talitha si calcò il cappuccio ancora di più sulla testa e cercò di non entrare nel cerchio di luce del fuoco. Ethan la guardò incuriosito e, una volta lontani, le domandò: «Sai, è da prima che te lo volevo chiedere: per quale motivo indossi il cappuccio? Non fa tanto freddo… siamo in estate.»
“E ora che gli dico?” ebbe un attimo di panico Talitha. Mentre stava pensando a una scusa plausibile, un lamento lontano si fece strada fino a loro. Si guardarono e, intendendosi al volo, andarono nella direzione da cui proveniva quel pianto.
Una donna, accanto alla tenda usata come luogo di medicazione provvisorio dell’accampamento, piangeva sommessamente mentre tentava di allontanare una bambina aggrappata disperatamente alla maglia di un uomo disteso a terra, immobile.
«Ti prego, amore…» La donna non riusciva a scostare la bambina perché il dolore le aveva tolto qualsiasi energia.
«Papà, papà! Papà parlami!» urlava la bimba.
Una sacerdotessa uscì dalla tenda vicino a loro e si inginocchiò accanto alla piccola.
«Mi spiace, Ewin, mi spiace tanto!» le disse accarezzandole i capelli poi, rivolta alla donna: «Piangi pure Elys, mi occuperò io di tua figlia.»
A quel punto la donna si prese il viso tra le mani e non frenò più le lacrime mentre un grido le usciva dalle labbra.
Ethan tratteneva il respiro e un ombra di dolore gli attraversò il volto.
«Ethan?» Talitha gli poggiò una mano sul braccio e lui, con un sorriso triste, la guardò e le fece capire di stare bene. Quindi andò ad inginocchiarsi accanto alla sacerdotessa e le chiese se potevano essere utili in qualcosa. Talitha restò un poco dietro di lui, nascosta, ma la sacerdotessa la notò ugualmente e cercò di metterla a fuoco. La ragazza allora abbassò il volto e lei desistette, ma rispose comunque alla domanda di Ethan. «Potreste occuparvi della bambina mentre io penso alla madre? Si chiama Ewin.»
Ethan le rivolse un cenno d’assenso e, rivolto alla piccola disse: «Ciao Ewin, mi chiamo Ethan, ti piacerebbe venire con me?»
«No, io rimango con papà! Io ho... lui ha paura del buio, se si sveglia ed io non ci sono, come fa?»
«Ma ci sono la mamma e la sacerdotessa con lui, non preoccuparti.»
«No, lasciami stare! Papà ora si sveglia ed io devo rimanere con lui! Papà dice che non mi devo allontanare da lui perché è pericoloso andare in giro da soli, ci sono i mostri! Quando siamo andati via, un mostro lo ha ferito. Non posso allontanarmi da lui, e se i mostri tornano?»
«Ewin, vai con Ethan, non ti succederà nulla» cercò di rassicurarla la sacerdotessa
«No, papà ora si sveglia, mi sorride e mi porta a letto e mi racconta una fiaba!»
«Ewin… papà non…» La madre tentò di parlarle ma riuscì a pronunciare solo parole sconnesse.
«Papà, papà, dai, svegliati… dobbiamo finire la fiaba, ricordi? La principessa doveva andare dal suo papà per chiedergli di non partire, ricordi papà? Il papà non doveva partire e lasciare la principessa da sola! Ricordi papà? Non doveva partire… papà, papà, ti prego, svegliati! Il papà non doveva andare via perché… perché, papà?» Lacrime inconsapevoli iniziarono a scivolarle dagli occhi.
«Perché la principessa aveva paura che potesse succedere qualcosa di brutto al suo papà» intervenne Talitha avvicinandosi. La fiaba di cui parlava Ewin era una delle più popolari tra i bambini.
La sacerdotessa, Ethan ed Ewin si girarono verso di lei mentre Elys continua a piangere.
«La… tu… la conosci?» domandò la bambina.
«Sì» le rispose Talitha, avvicinandosi ancora di più
«Te l’ha raccontata il tuo papà?»
«Io non ho un papà, e nemmeno una mamma, non li ho mai conosciuti. Ma se vuoi, posso raccontarti la storia» disse sorridendole e porgendole la mano.
La bambina guardò la mano protesa verso di lei e poi guardò il padre. «Ma io non posso allontanarmi da papà, lui ha detto che non devo allontanarmi, se poi si sveglia e non mi vede si preoccupa!»
«E allora non ci allontaneremo tanto, ci metteremo un po’ più in là, sedute su quel tronco» rispose Talitha indicando un albero caduto poco lontano. «Così se si sveglia potrà vedere che sei ancora vicino a lui, va bene?»
Ewin guardò il tronco, guardò il padre e infine guardò lei. «Va bene, ma non più lontano!»
«Promesso!» le sorrise e, dopo aver stretto la manina della bambina nella sua, le chiese: «Può venire anche il mio amico Ethan con noi? Anche a lui piacciono le fiabe, vero Ethan?»
«Sì, mi piacciono tanto» rispose lui rivolgendo un sorriso grato a Talitha.
«Va bene» consentì la piccola mestamente.
Mentre si allontanavano, la sacerdotessa li ringraziò con un cenno della testa, poi si avvicinò a Elys, l’abbracciò e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Questa annuì e la sacerdotessa coprì l’uomo con un telo.
Anche Ewin assisté alla scena: «Perché lo copre?»
Ethan stava per risponderle ma Talitha gli fece cenno di non parlare.
«A che punto eravate rimasti con la fiaba? Ah, sì… il padre stava per partire e la principessa lo supplicava di non farlo.»
Prese in braccio Ewin e iniziò a raccontare.
«... la principessa entrò di corsa nella grande Sala del trono dove il re, suo padre, era seduto intento a sistemare gli ultimi documenti prima della sua partenza per la guerra contro il regno nemico.
La principessa gli si avvicinò e gli disse: «Vi supplico padre, non partite.»
Il re, alzando la testa dai documenti, le rispose: «Devo farlo, figlia mia, devo andare a difendere il nostro paese e il popolo che crede in noi.»
«E io padre? Non pensate a me? Io rimarrò qui, sola, ad attendere il vostro ritorno… perché tornerete, vero?» Il padre non rispose e allora la principessa insistette: «Padre, tornerete da me?»
Il padre si alzò e andò dalla principessa, le prese le mani tra le sue e le disse dolcemente: «Non posso farti una promessa a cui non sono sicuro di poter tener fede.» Accarezzando il volto della figlia, mentre stringeva nell’altra mano quella piccola di lei, continuò: «Se non tornerò tu mi devi promettere di non piangere perché le tue lacrime mi addolorerebbero. Dovrai esser forte, sarà difficile, lo so, ma io ti sarò sempre accanto.»
La principessa, che all’udir le parole del padre aveva iniziato a piangere, gli chiese: «Se voi non tornerete da me vivo, come potrete essere con me?»
Il padre l’abbracciò e la tenne stretta a sé poi, con la voce piena d’amore rotta dall'emozione, le disse: «Finché la luna brillerà alta nel cielo, io sarò sempre con te. Finché le stelle splenderanno, io sarò sempre con te. Finché nel tuo cuore ci sarà anche un piccolo ricordo di me, io sarò sempre con te! Ti proteggerò anche se, con il corpo, non potrò starti vicino. Ricordati che finché il tuo cuore custodirà il mio, il mio cuore batterà nel tuo!»
La principessa abbracciò forte il re e tra le lacrime gli disse: «Allora andate padre mio, andate sicuro e tranquillo perché il mio cuore custodirà il vostro, perché le stelle splenderanno ogni notte della mia vita, perché la luna brillerà immortale su di me. Andate, padre mio, perché le mie lacrime non addoloreranno la vostra partenza! Ma ora, tra le vostre braccia lasciate che esse scorrano sulle mie guance; domani, ve lo prometto, non ci saranno più.»
Il re partì il giorno dopo e la principessa lo salutò dall’alto della torre.
Lui non fece ritorno ma non morì mai perché continuò a vivere per sempre nel cuore della principessa.
Quando il re nemico venne a sapere del coraggio della principessa, si presentò davanti ai cancelli del palazzo di lei. Appena la vide se ne innamorò perdutamente e le chiese di sposarlo. Lei acconsentì a patto che lui deponesse le armi e che le promettesse di non far più la guerra con nessun regno. Lui acconsentì e i due regni prosperarono.
La principessa ebbe un solo figlio maschio a cui diede il nome del padre.
Quel principe crebbe e divenne un uomo forte e coraggioso perché nel suo cuore batteva l’amore della principessa per suo padre.»
Durante il racconto Ewin si era stretta a Talitha e, alla fine della storia, domandò: «Anche il mio papà è forte e coraggioso, vero?»
«Certo tesoro» le rispose la ragazza, stringendola ancora di più
«Anche il mio papà non… si sveglierà, vero?»
Ethan iniziò ad accarezzarle la testa mentre lei le diceva dolcemente: «No, Ewin, non tornerà, ma se tu non lo dimenticherai, lui non ti lascerà mai, rimarrà per sempre in te e ti proteggerà.»
La bambina le strinse le braccia attorno al collo e iniziò a piangere tutto il suo dolore.
Dopo un po’ si addormentò sfinita dalle troppe lacrime ed Ethan le baciò la testolina, poi guardando la ragazza, sussurrò: «Grazie.»
«Non ho fatto nulla» gli rispose lei sorridendo
Ethan continuava a guardarla come se volesse chiederle qualcosa ma non riusciva a trovarne il coraggio, lei se ne accorse e gli domandò se c’era qualcosa che voleva dirle.
«In effetti… prima hai detto che non hai genitori e poi ti copri sempre i capelli e il viso. Perché?»
Talitha deglutì a vuoto. “E così alla fine si è ricordato che prima non ho risposto.”
Guardò davanti a sé come se stesse assistendo a uno spettacolo che solo lei poteva vedere, e iniziò a parlare a bassa voce per non disturbare Ewin.
«Non so chi siano i miei genitori, sono stata abbandonata appena nata davanti al te... davanti a una taverna» mentì, non poteva dire neanche a lui chi era, anche se ormai lo considerava quasi un amico. «Sono stata in quella taverna per tutta la vita… o meglio, per i miei primi quindici anni di vita. Non mi hanno mai trattato male ma neanche mi hanno mai voluto bene. Diciamo che per loro ero solo un accessorio, sì un accessorio da tenere in mostra e basta. Alla fin fine, non mi importa un granché, sai? Da loro ho imparato che è meglio non fidarsi di nessuno e che l’amicizia e l’amore sono dei rapporti interpersonali sopravvalutati e del tutto inutili. Guardami, sono cresciuta benissimo anche senza il loro amore!» Ethan la guardò con tanta tristezza negli occhi, lei piegò la testa di lato incuriosita dal suo sguardo ma non osò chiedergli spiegazioni e, invece, continuò: «Tengo il cappuccio sulla testa e mi copro il viso perché la gente è curiosa e viene sempre attratta dai miei lineamenti e a me non piace essere al centro dell’attenzione.»
“Speriamo che questa se la beva perché non mi è venuto in mente niente di più plausibile” pensò abbassando la testa per nascondere la propria espressione.
«Bene, credo che ora sia meglio riportare Ewin dalla madre e andare a dormire un po’ anche noi, domani ci aspetta la solita lunga giornata di marcia» finì sospirando, rassegnata all’idea che l’indomani sarebbe stato un giorno come tutti gli altri.
Si alzarono facendo attenzione che la bambina non si svegliasse e, dopo averla messa al sicuro tra le braccia della madre, si salutarono e si diressero ognuno nella propria tenda.
Un giorno senza un sorriso...è un giorno perso (Charlie Chaplin)