La Locanda in Adunanza

La Locanda in Adunanza

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 20:52

Come quasi tutti ormai sapete, tempo fa è stato indetto da Bravi Autori il concorso ADUNANZA 2011 , preceduto dall'edizione del 2010.
Se non sapevate del concorso, è impossibile che non ne abbiate sentito parlare (specialmente nella fase finale con i nostri nervosismi e battute :lol: :lol: ) qui in Locanda....beh, la Locanda ci ha partecitato!!!!!!!!!! :ugeek:
(ma và?! :roll: )

Gli arditi gladiatori che si sono cimentati in questa prova di scrittura (e tanta tanta tanta tanta tanta pazienza :lol: ) sono i viandanti: Claudia, Demon Black, Nihal87 e Saxosax
(messi in ordine alfabetico per non dar torto a nessuno :ugeek: ).

Direi che il risultato è stato più che soddisfacente....siamo arrivati TERZI!!!!!!!!!!!!!!!!
(a parimerito insieme ad un altro gruppo :ugeek: )

Volevo condividere con voi questo risultato! :-P :-P :-P :-P
...anche perchè sono la R.I.P. della Locanda ed è mio compito Informare :ugeek:


Blackie R.I.P. :ugeek:
Ultima modifica di demon black il 21/07/2011, 21:26, modificato 2 volte in totale.
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CLASSIFICA FINALE

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 20:53

1° classificato:
Human take away - di "Contrada BraviAutori" per http://www.braviautori.it
punti: 6 5 5 5 6 5 = 32

2° classificato:
Repetita non iuvant - di "Colonne massicce" per http://www.colonnedercole.org
punti: 5 6 3 5 3 5 = 27

3° classificato (parimerito):
La sottile distanza - di "Viandanti di Altrove" per http://www.terradialtrove.it
punti: 4 3 3 4 4 4 = 22


3° classificato (parimerito):
Nel cuore di una tartaruga - di "Gli Antipodi" per http://www.assonuoviautori.org/NASF
punti: 6 2 4 3 1 6 = 22

4° classificato:
l'Odissea di Ian - di "Eureka!" per http://www.scrignoletterario.it
punti: 1 4 4 6 2 2 = 19

5° classificato:
L'interprete - di "scribertucce" per http://www.scripta-volant.org
punti: 3 2 2 2 6 3 = 18

6° classificato:
Come sopravvivere a una catastrofe - di "Quelli di Universidiscrittura.it" per www.universidiscrittura.it
punti: 2 1 1 1 1 1 = 7
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LA SOTTILE DISTANZA (il nostro racconto)

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 20:57

1.
Avrebbe voluto poter fare di più, invece poteva solo stringerla a sé, carezzarle i capelli e sussurrarle parole di conforto all’orecchio, per non svegliare gli altri. Dividevano la tenda con altre due famiglie e, dopo un’altra sfiancante giornata di marcia, i loro compagni desideravano solo poter riposare, non essere costretti alla veglia dai singhiozzi della donna.
Ma i ricordi erano ancora freschi e le ferite aperte.
Quasi ogni notte l’incubo di quell’ultimo giorno, quando avevano lasciato la loro fattoria, tornava a visitare i sogni di sua madre facendola agitare e disperare nel sonno. Le urla, la paura, il mostro alato che strappava via le persone e le trascinava con sé in aria, per poi lasciarle cadere al suolo tra urla straziate. E il tonfo sordo dei corpi che sbattevano contro il terreno…
Anche a suo padre era toccata quella sorte.
Si abbandonò anche lei alle immagini del passato, non aveva senso opporvisi. Tanto, in un modo o nell’altro, l’avrebbero comunque trascinata indietro.
La loro casa era stata una fattoria non troppo distante dalla capitale. Era stato il regalo che un nobile aveva fatto a suo nonno per avergli coraggiosamente salvato la vita, e grazie a quel dono la sua famiglia aveva potuto affrancarsi da una vita misera e trovare una relativa tranquillità. La benevolenza del nobile era però andata oltre e aveva fatto in modo che il suo salvatore entrasse a far parte della schiera dei fornitori diretti del palazzo reale. Suo nonno era ormai morto da diversi anni, ma le cose non erano cambiate.
Quel giorno suo padre era tornato dalla solita consegna settimanale con la terribile notizia dell’avvicinarsi inesorabile dei Greubywyd. Lo aveva saputo di prima mano da un funzionario di palazzo a cui anni addietro aveva fatto un grande favore: il principe Averon si preparava a lasciare la capitale e avrebbe portato con sé parte della popolazione. La loro famiglia poteva essere tra questi, aveva lasciato intendere l'uomo, ma dovevano lasciare i loro possedimenti e raggiungere la città immediatamente; si sarebbe occupato lui di tutto.
La madre e la zia, pur recalcitranti, avevano cominciato a caricare il carro con cibo, abiti e coperte. Nel frattempo il padre e lo zio avevano abbattuto tutti gli animali che non avrebbero potuto portare con loro.
«Non saranno le nostre bestie a sfamare quei mostri!» avevano detto.
A preparativi ultimati avevano chiuso le finestre e sprangato la porta nell’intima e inconfessabile speranza di poter un giorno tornare, e si erano avviati.
In genere da casa loro non occorrevano più di un paio d’ore per arrivare alle porte della città, ma quel giorno il carico eccessivo aveva rallentato l’andatura dei muli e il tempo si era dilatato.
Poco dopo aver imboccato la strada maestra avevano incontrato Sōre, un loro vicino, e il minore dei suoi figli, Alec. Lo zio aveva raccontato per sommi capi quello che stava succedendo e li aveva sollecitati a seguire il loro esempio e cercare rifugio in città. Ascoltando le parole dello zio, Helena era stata colpita dalla piena consapevolezza di cosa quella partenza improvvisa significasse per lei e per la sua famiglia. Avrebbero perso tutto: la casa, gli amici, la loro intera vita. Il mondo, il suo mondo, si stava ribaltando. Cosa stava succedendo? E perché poi? Aveva guardato Alec, i suoi grandi occhi grigi, i lunghi capelli ricci e spettinati, la bocca carnosa, e un crampo improvviso le aveva attanagliato lo stomaco. Persa nei suoi pensieri non si era accorta subito che i carri erano ripartiti, e quando lo aveva fatto si era voltata indietro e aveva gridato:
«Alec, saluta Aran da parte mia e digli che… che…» ma non era riuscita a finire la frase, si era limitata ad alzare il braccio e a rispondere al gesto di saluto del ragazzo. Poi aveva avvicinato le gambe al petto, e con la testa nascosta tra le ginocchia aveva pianto.
L’orrore era arrivato quando erano ormai vicini alla meta.
Si erano uniti ad altri fuggitivi che come loro cercavano la salvezza tra le mura della capitale. Un gruppo non molto numeroso a dire il vero, ma capace comunque di attirare l’attenzione della bestia.
Helena aveva la testa appoggiata sul grembo della madre, sentiva le sue dita accarezzarle dolcemente i capelli, nel tentativo di consolarla, quando all’improvviso un verso raccapricciante aveva invaso l’aria e costretto tutti quanti a portare le mani alle orecchie, in un gesto tanto istintivo quanto inutile a schermare quegli stridii agghiaccianti. Si erano guardati intorno interdetti, ma non c’era nulla. Poi lei aveva gridato:
«Lassù!»
Tutti gli occhi si erano alzati verso il cielo, e l’avevano visto. Una specie di enorme uccello dal lungo collo nero e dai contorni stranamente sfumati si stava lanciando sul loro piccolo convoglio con le tozze zampe artigliate pronte a colpire. D’istinto si erano tutti gettati a terra o sul fondo dei carri, cercando di appiattirsi il più possibile, ma non era servito e un uomo era stato stretto nella morsa di artigli potenti, sollevato in aria e poi scagliato lontano. Le sue urla disumane avevano fatto alzare la testa ad alcuni tra i più coraggiosi, ma solo per vedere la vittima sfracellarsi al suolo. Ed ecco che la bestia era tornata immediatamente a reclamare un’altra vita, e poi un’altra ancora. Era stato a quel punto che suo padre, suo zio e qualcun altro tra gli uomini avevano cercato di opporre una qualche resistenza afferrando qualsiasi cosa potesse anche lontanamente servire da arma.
«Scappate! Scappate!» aveva urlato il padre agitando in aria una falce.
Helena non se lo era fatto ripetere e si era guardata intorno ansiosa, mentre il cuore le martellava all’impazzata nel petto e il ronzio del sangue le riempiva le orecchie.
«Là, corriamo di là. Vedo degli alberi!»
«Dove? Io non vedo niente!» aveva sentito qualcuno gridarle vicino.
«Seguitemi» e aveva iniziato a correre, ma per fermarsi dopo solo pochi passi nell’udire una voce familiare urlare il nome di suo padre. Si era voltata e lo aveva visto ondeggiare a mezz’aria appeso alle zampe letali del suo assassino.
Con gli occhi dilatati dall’orrore aveva sperato che fosse morto sul colpo, che quelle unghie nere gli avessero schiantato il cuore all’istante. Aveva dovuto usare tutta la sua forza per trattenere la madre, lottando contro di lei e il panico, e trascinarla verso il riparo del bosco, e forse verso la salvezza.
Avevano aspettato lunghe ore nascosti tra gli alberi anche dopo che la bestia sembrava essersene andata, senza il coraggio di avvicinarsi ai loro carri. Alla fine però la pietà aveva avuto il sopravvento sulla paura ed erano andati a recuperare i corpi martoriati per seppellirli. Helena aveva scavato a lungo con le mani e con un piatto, incurante del freddo, dei dolori e della fame. Aveva scavato e pianto. Pianto e scavato. E aveva giurato a se stessa che non si sarebbe arresa, che avrebbe difeso con tutte le sue forze la sua vita e quelle dei suoi familiari, proprio come aveva fatto suo padre.
Alla fine, esausti sia nel corpo che nella mente, erano risaliti sui carri ed erano ripartiti.
Quando erano giunti alle porte della città il buio era ancora profondo, e i pesanti battenti chiusi.
Si erano stretti nelle coperte e avevano finalmente ceduto alla stanchezza.
Quella notte sua zia aveva perso il bambino.
Il mattino successivo, dopo essere entrati all’interno delle mura erano andati a cercare un'anziana erborista amica del padre che era sempre stata gentile con loro quando facevano visita alla città. Le avevano raccontato tutto quello che era successo e lei, senza pensarci neppure un momento, aveva condiviso con loro zuppa e pane fresco, e aveva permesso loro di rifugiarsi nel retro della sua bottega; poi aveva fatto chiamare la levatrice e fatto visitare la zia.
Erano rimasti due giorni chiusi in quella piccola casa, in silenzio, svuotati di qualsiasi emozione che non fossero paura e dolore; poi, al pomeriggio del terzo giorno, qualcuno aveva bussato alla porta sul retro. Helena si era alzata guardinga e aveva aperto appena uno spiraglio. Pioveva.
«Helena!»
Aveva riconosciuto subito quella voce e senza neppure pensarci si era lanciata tra le braccia del ragazzo avvolto in una giacca pesante grondante acqua, e si era stretta a lui.
«Sei qui. Sei qui.»
Il ragazzo l’aveva accompagnata al riparo di una tettoia e l’aveva fatta sedere sulle sue ginocchia.
«Cosa è successo, Helena? Ho visto le tombe fresche sul ciglio della strada. Non hai idea della pena, al pensiero di non sapere come stavate. Ho provato a cercarvi nelle locande, ma non vi ho trovati e alla fine mi sono ricordato della vecchia che ogni tanto ci regalava i biscotti da bambini e l’ho cercata per chiederle se vi aveva visto.»
«Papà è morto. E anche lo zio.» Lo aveva detto tutto d’un fiato, guardando a terra. «Un mostro ci ha attaccato e loro lo hanno distratto mentre noi scappavamo. Si sono sacrificati per noi.»
«Helena» aveva sussurrato il ragazzo, abbracciandola ancora più stretta.
«Tu perché sei qui Aran? Siete venuti anche voi in città?»
«Sì, siamo arrivati ieri mattina. Papà ci ha messo un po’ a decidersi, ma alla fine si è convinto. Alloggiamo in una locanda vicino alle mura. Un tugurio e il proprietario ci sta salassando, ma non importa: tra poco non saremo più qui» aveva detto con un mezzo sorriso. Poi l’aveva guardata. «Io sarei venuto lo stesso. Anche da solo.»
«Grazie Aran, Sono felice che tu sia qui» aveva risposto Helena abbracciandolo. « Ma vieni dentro, dai. Sei fradicio e gli altri saranno contenti di vederti.»
Avevano lasciato la città al seguito del principe Averon tre giorni dopo.

Sua madre si era riaddormenta, così Helena si sciolse dall’abbraccio e in silenzio uscì dalla tenda. L’aria era fredda, ma il cielo sereno e brillante di stelle. La luna piena illuminava la notte e le permetteva di camminare anche senza una luce a guidare i suoi passi. Si diresse verso la tenda che Aran divideva con la sua e altre famiglie, ed entrò in punta di piedi. Sapeva che il ragazzo dormiva sempre vicino all’ingresso, girò lo sguardo attorno e vide una testa di capelli neri e ricci spuntare da sotto una coperta. La ragazza gli si avvicinò in silenzio e lo scosse leggermente.
«Aran» lo chiamò sottovoce. Un mugolio e il ragazzo si girò dall’altra parte. «Aran, svegliati.»
Gli appoggiò una mano fredda sul collo, facendolo rabbrividire.
«Cosa…? Ah, sei tu» disse il ragazzo. «Buongiorno» e l’attirò a sé posandole un bacio leggero sulle labbra.
Helena sentì un calore improvviso incendiarle il viso e un rimescolio alla bocca dello stomaco.
«È ancora notte fonda, ma c’è una cosa di cui voglio parlarti, vieni con me.»
«E non può aspettare fino a domani mattina?» chiese lui con uno sbadiglio.
«Non riesco a dormire.»
«E quindi hai deciso che non debba farlo neppure io.»
«Sì… cioè no. Hai ragione, scusami. Torna ai tuoi sogni, ne riparleremo domani.»
Aran alzò lo sguardo al cielo e si tirò su. Prese la pesante giacca posata lì accanto e, prendendole la mano, si avviò verso l’esterno.
«Andiamo, su.»
Camminarono verso il fiume oltrepassando alcune tende. Un uomo di ronda li vide, ma li riconobbe e fece finta di niente; si sedettero vicino all’argine, ai piedi di una giovane betulla. Aran circondò le spalle di Helena con il braccio e l’attirò a sé.
«Dunque? Cosa c’è di tanto urgente?»
Ma la ragazza non riusciva a rispondere. Lo sguardo fisso sul viso di lui.
«Ti amo. Lo sai vero?»
Aran sgranò gli occhi e la strinse ancora di più.
«Anche io ti amo» disse infine con voce roca sia per l’emozione che per il tentativo di parlare a voce bassa. «Avrei continuato a cercarti fin in capo al mondo se non ci fossimo ritrovati subito, in città.»
La baciò ancora e questa volta fu un bacio vero, profondo e lungo, che li lasciò entrambi senza fiato.
Rimasero per un po’ abbracciati a guardare le stelle e ad ascoltare lo scorrere del fiume e i rumori notturni che provenivano dall’accampamento.
«Sono contento che tu mi abbia svegliato per dirmi questo» disse infine Aran con un sorriso. «In effetti non c’era motivo di aspettare fino a domani.»
«A dire la verità, non ti ho svegliato per questo.»
«Ah no? Peccato!»
«Stupido» rise Helena. «Volevo parlarti di un’idea che mi frulla in testa già da qualche giorno. Mi sono resa conto di una cosa ultimamente: i miei occhi…» fece una pausa cercando le parole «vedono meglio di quelli delle altre persone. Riesco a scorgere gli oggetti molto prima di tutti gli altri. Mi è successo con il bosco il giorno in cui siamo stati aggrediti, e me ne rendo conto anche in questa situazione. Oggi ho visto il fiume molto prima di tutti voi. Anche adesso, dimmi cosa vedi tu qua attorno?»
«Cosa vedo? Hmm… il chiarore dei fuochi, l’ombra del fiume, gli alberi, le sentinelle che camminano…»
«E sull’altra sponda?»
«Sull’altra sponda? Le sagome degli alberi e… nient’altro, è troppo lontano.»
«Io vedo due guardie a distanza di tre o quattrocento passi l’una dall’altra. Una delle due è appoggiata a un tronco e sembra stia per crollare dal sonno. Vedo due gufi. Vedo un ragazzo e una ragazza seduti alla nostra destra, non si sono accorti di noi. Capisci? Riesco a vedere al buio quasi come in pieno giorno e…» si fermò, incerta.
«E…» chiese Aran stupito e curioso al tempo stesso. Non si era mai accorto di quella particolarità di Helena.
«E allora ho pensato che questa mia… qualità… potrebbe esserci utile in questa fuga.»
«Vuoi chiedere di essere arruolata fra gli apripista.» Non era una domanda la sua, ma un’affermazione. La conosceva da quando erano bambini e giocavano insieme in mezzo ai campi e sulle rive del fiume. Conosceva la sua testardaggine e la sua generosità: se pensava di poter essere utile, non si sarebbe mai tirata indietro.
«Sì. Mi sembra la scelta migliore. Potrei andare in avanscoperta o nelle retrovie per controllare che non ci inseguano. E potrei aiutare altri ad evitare quello che è successo a mio padre. Oppure procurare il cibo con la caccia. Capisci vero?»
«Vengo con te.»
«Dici sul serio?»
«Secondo te, ti lascio proprio adesso che finalmente ti sei decisa a dirmi che mi ami? Non pensarci neanche. Dove sarai tu, lì sarò io.»
Helena gli prese il viso tra le mani e lo baciò ancora e poi ancora e ancora. Lasciò che il desiderio percorresse le strade del suo corpo e diventò donna tra le sue mani, quella notte, sulla riva del fiume.

Il mattino successivo comunicarono alle famiglie la loro decisione. La madre di Helena pianse e si disperò, ma i suoi fratelli e la zia la sostennero. Per Aran fu più facile: il padre si aspettava già una decisione di quel tipo, quindi non fu colto di sorpresa.
Andarono insieme da un ufficiale e gli raccontarono del dono di Helena. Dopo essere stata sottoposta a una prova, fu arruolata immediatamente e assegnata a una squadriglia di cacciatori. Lei chiese che Aran potesse seguirla e le fu accordato. Era un ragazzo alto, forte e sveglio: sarebbe stato un ottimo soldato.


2.
DAL DIARIO DI VIAGGIO DEL PRINCIPE AVERON DEI NOIADOCHAS, A.C. 215, MESE DELL'AQUILA, TREDICESIMO GIORNO.
Mi si stanno chiudendo le palpebre... ma devo rimanere sveglio. È solo mezzodì e c'è ancora molta strada da percorrere oggi.
Le carovane sono ferme e ho deciso di concedere alla gente un po' di riposo: sono stanchi e affamati.
Sono passate appena due settimane, ma già la marcia rallenta. Almeno una persona su quattro è ferita e molti di meno conoscono le arti della guarigione. Siamo qualche migliaio, ma immagino che presto ci ridurremo.
Inizialmente avevo pensato che il caldo estivo ci avrebbe agevolato nella fuga, ma ora non ne sono più tanto sicuro. Non avremmo potuto portare abbastanza abiti da permetterci di affrontare l’inverno, e trovare il cibo sarebbe stato più complicato; ma con il caldo i malati e i feriti si disidratano rapidamente e l’acqua sembra non bastare mai, nonostante per ora ne troviamo in abbondanza grazie ai ruscelli che scendono dai monti. Le tende sono infestate dalle zanzare, i tagli si infettano e le febbri non guariscono.
Ho deciso di risalire le colline nella speranza di scorgere la fortezza di Hores, per essere certo di procedere nella giusta direzione, ma invano. Posso solo proseguire lungo la strada indicatami da mio padre, l'ultima volta che lo vidi, e sperare che avesse ragione.
I Greubywyd non ci hanno più attaccati: dopo quel terribile giorno sembrano essersi dimenticati di noi. Sembra quasi che vogliano lasciarci scappare, che abbiano perso interesse; alcuni lo pensano, ma sono degli illusi. Le bestie stanno solo aspettando, temporeggiando, per fare in modo che la caccia non finisca troppo presto. Come il gatto che gioca con l'uccellino ancora vivo, perché l'uccellino morto non gli darebbe più nessun divertimento.
Il loro sadico istinto però li ha portati a commettere un errore. Ci hanno permesso di raggiungere la foresta ed entro sera il campo sarà al riparo degli alberi. Non oseranno attaccarci dall'alto sfidando le fronde, e se lo facessero saremmo pronti a rispondere. Forse questo basterà, forse ci permetterà di raggiungere Hores in tempo... Loro non sanno che esiste, non lo possono sapere. Quando saremo dietro le vecchie mura saremo al sicuro.
Ogni tanto mi scopro ad accarezzare la spada. Passo distrattamente le dita sull'elsa dorata senza nemmeno accorgermene. La vista di quest'arma mi infonde coraggio. Era la spada di mio padre in fondo, la leggendaria Spaccapietre, la spada indistruttibile appartenente al padre del padre di mio padre, tramandata nella nostra famiglia di generazione in generazione. Molti sono convinti che finché questa spada sarà con noi i Greubywyd non potranno mai annientarci. Finché l'avrò il popolo mi ubbidirà.

Ho appena congedato Ezdo, una delle mie nuove guardie personali e la più rapida delle mie staffette; sto scendendo per ordinare di riprendere la marcia, non è saggio rimanere in un luogo così esposto. Devo ricordarmi i loro nomi, tutti i loro nomi, sento che è importante...
Ezdo è solo un ragazzino, poco più che sedicenne e ancora inesperto, ma sta affrontando il suo compito con dedizione e ascolta sempre i consigli. Se sopravviverà potrebbe diventare un buon soldato.
Ezdo e gli altri mi hanno riferito che tra i profughi vi sono molti esponenti della casta sacerdotale, sacerdotesse di Izaera soprattutto, chissà perché ma questo non mi stupisce. A dirla tutta non mi stupirei nemmeno se fra loro ci fosse anche la Gran Sacerdotessa, sotto mentite spoglie.
Ma niente di tutto questo ha importanza ormai. Abbiamo archi e lance a sufficienza, fabbri per riparare gli zoccoli dei cavalli e gli utensili, giovani in forze che badano agli animali e a montare il campo di notte e donne per fare in modo che la nostra razza non si estingua, per far sì che un giorno ci sia qualcuno a ricordarci.
Quando raggiungeremo Hores saremo al sicuro. Solo io posso sapere come raggiungerla, me lo ha detto mio padre, prima di mandarmi via. Chissà se è ancora vivo... difficile, spero che abbia dato del filo da torcere ai suoi aguzzini e che ne abbia portati molti con sé nell'aldilà, o dovunque sia che quelle bestie vanno quando le uccidi. Glielo auguro, e auguro pace alla sua anima, mentre io rimango qui sulla terra, a sopravvivere.

3.
I suoi occhi blu riflettevano il sole e Ethan pensò che mai era stata così bella.
Cecil si voltò e quegli occhi lo fissarono imploranti. «Dimmi che ci salveremo. Ti prego Ethan, dimmi che ci salveremo.»
«Non lo so, sorellina. Lo spero.»
Ethan e Cecil, sedici anni, condividevano tutto sin da quando erano venuti alla luce. Erano gemelli, identici in tutto, se non nel fatto che uno era un ragazzo e l'altra una ragazza.
Capelli lunghi e scuri e due occhi blu come una notte serena; per lui un volto spigoloso, pronto per diventare quello di un uomo, per lei un viso più dolce e aggraziato, pronto per essere donato a un altro uomo.
«Dove ci stanno portando? Nemmeno ci hanno fatto salutare nostro padre!» la nota implorante era svanita e il carattere forte di Cecil era tornato a galla.
«Sai perfettamente perché, quindi non ti lamentare. Ci stanno portando al sicuro.» Ethan scosse la testa e spinse avanti la sorella. «Muoviti o ci lasceranno indietro.»
Cecil spostò una ciocca di capelli dagli occhi. Era sudata, arrabbiata, spaventata e affamata. Tutto ciò non giovava al suo carattere già pessimo.
«E che mi lascino indietro! Camminare come mendicanti in mezzo a poveracci e malati. Oh dei, che orrore!»
Davanti a lei un uomo sanguinava copiosamente da un fianco e una donna vestita di una tunica verde sporca di terra stava tentando di bendarlo. L'esclamazione le costò un'occhiataccia. «Vedremo se ti disgusterà lo stesso quando capiterà a te.»
«Che cosa?»
Ethan la spinse via, verso il resto degli esuli.
«Hai sentito che mi ha detto quella vecchiaccia?»
«Non era una vecchiaccia! Sai che era una sacerdotessa e stava curando un ferito. Tu e la tua sensibilità vi attirate sempre buone parole.»
Cecil mise il broncio e per la felicità di Ethan si azzittì. Adorava sua sorella, lei era la sua metà; ed era tanto scorbutica e forte, quanto lui era gentile e sensibile. Erano due facce della stessa medaglia e come tali costretti a stare insieme. Costretti da quel maledetto vincolo che la madre aveva loro imposto in punto di morte. Ovviamente lei non poteva sapere che si sarebbe avverato, era una circostanza che prevedeva parole solenni e lei le aveva pronunciate più come rituale che perché ci credesse davvero. Ma era successo: Ethan e Cecil non potevano allontanarsi l'uno dall'altra più di un migliaio di passi. Assurdo. Assurdo e decisamente scocciante.
Negli ultimi anni si erano abituati alla cosa, ma all'inizio era stato un inferno.
Ora semplicemente prendevano atto della loro triste condizione e tentavano di sopravvivere in quella guerra.
Il gruppetto di fuggiaschi a cui si erano aggregati si fermò. L'uomo sanguinante aveva bisogno di cure e la sacerdotessa aveva imposto una sosta.
«Ma così perderemo gli altri!» era stato un uomo emaciato e graffiato in volto a parlare.
«Siamo in migliaia, credi propri che non li ritroverai? Quest'uomo era già ferito quando siamo partiti e ormai il taglio si è infettato.»
Non appena la donna aprì le bende fatte poco prima Ethan volse gli occhi dall’altra parte.
Cecil invece colmò il suo sguardo orripilato di quella scena. «Forse dovreste inciderla non credete? Quel... quel bubbone disgustoso è pieno di pus e di certo non gli fa bene.»
Altra occhiataccia, ormai la sacerdotessa era decisamente esasperata. «Pensi di essere un cerusico? Pensi di poterlo curare meglio di me?»
Ethan volse gli occhi al cielo. Perfetto. Sfidare Cecil era proprio quello che ci voleva.
«Ebbene sì, cara la mia sacerdotessa.» La giovane odiava i sacerdoti dal giorno in cui la sua famiglia le aveva imposto di vivere segregata in un tempio. Ethan era stato costretto a seguirla per via del vincolo, ma fortunatamente non doveva assistere alle lezioni. Ne era uscita quattro anni prima e per entrambi era stato un enorme sollievo.
«Qualcuno ha un pugnale o devo cercarmelo da sola?» L'uomo che voleva proseguire le consegnò una piccola lama. «Mmm è perfetto. Però avrei bisogno di un fuoco. Se foste così gentili...» Il suo tono invece era tutto, tranne che gentile. Era tagliente, scorbutico e irritante, ma la gente le ubbidiva, perché lei era pratica. Dava soluzioni e risolveva problemi.
“È proprio come nostro padre” pensò Ethan.
Dieci minuti dopo una debole fiammella veniva tenuta in vita dall'uomo graffiato e dalla sacerdotessa in verde, il cui nome era Alenia.
«Ora, qualcuno ha un recipiente?» Una ragazzina si fece avanti da dietro le altre persone che assistevano alla scena e porse a Cecil una scodella. «Mettici dell’acqua, poi mettila sul fuoco e falla bollire» le disse mentre si strappava l’orlo della gonna. Oddio lei adorava quel vestito!! Che faceva? «Metti a bagno queste.»
Poi iniziò a trafficare attorno al malato. Tolse tutte le bende vecchie, ripulì alla meno peggio la pelle attorno alla ferita e assegnò alla giovane della scodella il compito di tergere il volto sudato del ferito. Finalmente l'acqua iniziò la bollitura. Cecil passò il pugnale sul fuoco più volte fino a che non divenne nero.
«Mordi questo.» Allungò all'uomo un legnetto ed egli lo strinse, come se fosse l'ultima cosa rimastagli sulla terra. Ethan notò che il ferito non aveva mai urlato, pianto o si era lamentato in altri modi. Era immobile, il suo volto sofferente e solcato da cicatrici fissava Cecil come fosse una dea. Quella al fianco era decisamente la ferita più grave, ma Ethan ne vide anche di più lievi alle gambe e una alla tempia destra.
L'operazione iniziò. Cecil incise con un taglio preciso e poco profondo il bozzolo pulsante di pus, prontamente bloccò il flusso con gli stracci bolliti e caldi. L'uomo digrignò i denti e Ethan fu certo di sentire uno scricchiolio.
Quando la giovane con gesti rapidi ripulì a fondo la ferita, la maggior parte degli astanti si voltò.
Ethan riportò lo sguardo sulla la sorella, sudata e stanca, dopo che questa già aveva applicato delle bende "pulite" e l'uomo tornava ad alzarsi.
«Grazie mia giovane dea.»
«Di nulla. Vi prego, le bende messe a mollo» prese le bende nella scodella e le strizzò «dovranno asciugarsi. Tenetele attaccate alla vostra sacca, nel sole del mattino si asciugheranno in una baleno. Vi cercherò di nuovo oggi pomeriggio, la ferita che avete al fianco non è trascurabile come le altre.»
Detto questo Cecil se ne andò trascinandosi dietro il gemello. Probabilmente aveva salvato la vita a quell'uomo e nemmeno se ne curava. Mentre veniva tirato in malo modo Ethan ebbe il tempo di sfiorare con lo sguardo la ragazza della scodella. Aveva strani occhi, intravisti appena mentre timidamente passava il contenitore a Cecil, ma così belli che lo avevano incatenato. Scacciò il pensiero della giovane e tornò alla sorella che gli stava stritolando il braccio.
«Perché l'hai aiutato se un attimo prima hai gridato “che orrore”?»
«Ho gridato “che orrore” perché quella sacerdotessa non aveva di certo fatto un buon lavoro. Al tempio di Otter, vengono insegnate per prima cosa le arti della medicina. Io ne conosco solo le basi, ma quella sacerdotessa non conosceva nemmeno quelle! Diciamo che comunque posso concederglielo, dalla tunica era evidente che non era una sacerdotessa della medicina, ma di Izaera.»
«Il Dio della natura?»
«Dea... sì proprio lei.»
Rimasero in silenzio e insieme al loro gruppetto si rimisero in marcia.

4.
Erano giorni che camminava a fianco di persone che neanche conosceva e ormai la sua vita di prima le sembrava solo un miraggio lontano.
Con un sospiro Talitha cercò di ricordare i giorni che aveva trascorso nel tempio di Izaera. Era stata abbandonata, a pochi mesi di vita, davanti al tempio della Dea e messa subito sotto la custodia della Gran Sacerdotessa per via del suo aspetto particolare: capelli rossi come il fuoco, un occhio azzurro come l'acqua e l'altro verde smeraldo come la natura. E a mano a mano che cresceva erano stati proprio i poteri legati a quei tre elementi a renderla speciale rispetto alle sue coetanee: era molto più dotata di tutte loro. Questo, oltre ai privilegi che le venivano concessi, aveva avuto come conseguenza un certo isolamento: non era mai stata maltrattata ma neanche realmente amata. Era semplicemente considerata un contenitore; il suo valore risiedeva nei suoi poteri non nei suoi sentimenti. Man mano che cresceva tutto questo le fu sempre più chiaro.
Essere la protetta della Gran Sacerdotessa aveva avuto i suoi vantaggi, certo, ma ora ne pagava anche le conseguenze: era risaputo che sarebbe stata lei ad occupare il suo posto una volta che questa fosse venuta a mancare. E lei sapeva che, ora che la Gran Sacerdotessa era sparita durante l’attacco, le consorelle del tempio le avrebbero chiesto di assumere la carica rimasta vacante, ma lei non se la sentiva, non voleva.
A quindici anni aveva solo una vaga idea di quello che “lei” voleva per se stessa, figuriamoci se poteva preoccuparsi di quello che volevano gli altri!
Non aveva mai avuto nessuna opportunità di scelta perché, nel momento stesso in cui era stata abbandonata davanti al tempio, era diventata “proprietà” della Dea Izaera e avrebbe dovuto servirla per il resto dei suoi giorni, ma lei non era una cosa, era una persona, e come tale aveva dei desideri, dei sogni.
Era stato questo il motivo per cui, nel caos generato dal secondo attacco nemico, Talitha si era tolta la tunica verde, simbolo di appartenenza al suo ordine, e coperta da un mantello con un cappuccio ben calcato sulla testa era scappata mischiandosi con il popolo in fuga.
Non riusciva a condividere il dolore delle persone che la circondavano, non condivideva la loro disperazione perché, per lei, quell'attacco aveva significato la concretizzazione di un sogno. “E adesso, devo solo vivere il resto dei miei giorni cercando di non incrociare nessuna tunica verde”, pensò con una smorfia sarcastica.
Un crampo allo stomaco la fece tornare alla realtà! Guardò la scodella vuota che aveva in mano… sì, era ora di cena, decisamente.
Il suo sguardo si posò su una ragazza che, poco più avanti, stava attirando l’attenzione di tutti quelli che la circondavano. Guardò meglio e si accorse che vicino a lei c’era anche un ragazzo che... “sono identici, sono dei gemelli!” disse a se stessa.
Guardandoli, rimase affascinata dai due, specialmente da lui.
Le guance di Talitha divennero dello stesso colore dei suoi capelli per la piega che stavano prendendo i suoi pensieri. Essere cresciuta circondata da sole donne, aveva solo accresciuto la sua già prepotente timidezza verso il genere maschile.
La ragazza cominciò a impartire ordini a destra e a sinistra, Talitha si avvicinò per curiosare, per vedere con chi se la stesse prendendo, ma si bloccò non appena scoprì che la vittima era una sacerdotessa di Izaera. Si calò il cappuccio sulla testa, se l'avesse riconosciuta, per lei e per la sua nuova vita libera, sarebbe stata la fine!
La ragazza che prima stava discutendo con la sacerdotessa chiese un contenitore, lei guardò la scodella che stringeva tra le mani e si fece avanti. L’altra le ordinò di assisterla, senza nemmeno rivolgerle un secondo sguardo.
“Chiedere è passato di moda?” pensò stizzita.
Il gemello si avvicinò e, se possibile, Talitha diventò ancora più rossa… fortuna che il cappuccio la nascondeva…
Dopo che la ragazza ebbe curato l’uomo e sgridato in malo modo, e a ragione, la sacerdotessa che lo accudiva, le disse che più tardi l'avrebbe chiamata di nuovo per cambiare la medicazione e curare anche le altre ferite del suo assistito, quindi si mise a parlare con il fratello ignorandola del tutto.
«Certo, come no? Ho sempre desiderato essere ai vostri ordini!» le rispose risentita Talitha. «Ho sentito che prima affermavate che avete studiato nel tempio del Dio Otter ma che poi siete andata via, vero? Se vi foste trattenuta un giorno di più, non vi avrebbe fatto male perché credo che abbiate abbandonato poco prima che insegnassero come trattare con le persone!»
Anche se l’avevano sempre trattata come se fosse un miracolo vivente per via dei suoi poteri, mai si sarebbe sognata di comportarsi con l’arroganza di quella ragazza.
Alenia, la sacerdotessa sgridata poco prima, si avvicinò curiosa a Talitha e le chiese se per caso si fossero già conosciute.
«Mi spiace ma credo che mi stiate confondendo con qualcun altro» le rispose lei calcando ancora di più il cappuccio sul viso.
«Ne sei sicura? Il modo in cui hai risposto a quella ragazza impudente e sfacciata…»
«Sarà pure sfacciata e impudente, ma aveva ragione sul fatto che lo stavate uccidendo quell’uomo invece di salvargli la vita!»
La sacerdotessa strinse le labbra per trattenere una rispostaccia. «Ragazzina attenta a come parli e con chi lo fai!»
«Questo vale per entrambe!» Talitha si allontanò ancora di più.
“Accidentaccio! C’è mancato poco!” pensò sbattendo un piede in terra per la frustrazione.

5.
“Si continua a viaggiare. Ormai sono talmente stufa di farlo che sono sempre tentata di esplodere e urlare! È così assurdo rivolere indietro la propria vita? È così egoista volere ancora le mie cose e... i miei vestiti? I miei splendidi, adorabili vestiti! Sono la figlia di un colonnello accidenti e devo camminare alla stregua di una contadina! Sono arrabbiata, sporca, affamata e Ethan non fa niente per migliorare la situazione! Possibile che debba sempre fare tutto io? È un inetto.”
«Il fatto che io ti senta non cambia nulla vero?»
Un sorriso cattivo si allargò sulla belle labbra di Cecil.
«Mmm… no, direi di no.»
“La sua malefica mente era aperta solo per farmi carpire ogni suo segreto. Come posso volerle sempre stare accanto nonostante il suo pessimo carattere? È solo la maledizione di nostra madre che ci lega o qualcos'altro? Anche l'affetto fraterno fa fatica ad attecchire nel cuore arido di Cecil. Eppure ha aiutato quell'uomo.”
«Non chiudermi i tuoi pensieri Ethan. Potrebbe venirmi il dubbio che tu voglia nascondermi qualcosa.» Ancora quel sorriso dolce e accattivante in cui molti erano caduti e su cui Cecil aveva basato la sua vita.
«Io non ti nascondo nulla!»
Vedere la sua irritazione era il gioco preferito della sorella, ma Ethan era stufo marcio.
«Fra poco ci fermeremo per la notte. Vammi a cercare quella ragazzetta.»
«Ragazzetta? Avrà la tua età! Se non addirittura più anni di noi!»
«Oh dèi. Ethan sei noioso e scemo come sempre. Se l'età fosse solo un numero non avrebbe alcun significato non trovi?»
«Mi sembra di parlare con un oracolo! Potresti spiegarmi che vuoi dire?»
La giovane gli diede un buffetto sul viso. «Significa che sei scemo e basta. Vai, veloce! Ah... e non allontanarti troppo!»
Ethan si allontanò brontolando. “O dèi è insopportabile! Oggi più del solito.”
Nel girovagare per il campo approntato nella foresta vide una donna e un bimbo che aveva visto parlare con la ragazza.
«Mi scusi mia signora, saprebbe dirmi dove posso trovare la giovane che era con voi quest'oggi?»
La donna rise di gusto. «Signorino, le buone maniere non si addicono molto alla situazione. Comunque dovrebbe essere andata al torrente, l'ho vista andare in quella direzione.»
Ethan individuò il torrente e poi si voltò a cercare la sorella. Per una volta Cecil gli aveva agevolato le cose e se ne stava seduta poco lontano. La vide agitare la mano e sorridere.
“Che nervi! Solo lei può mandarmi in escandescenza in questo modo. Mmm il torrente è qui, e lei?”
All'improvviso fu letteralmente investito da una vampa di calore. Barcollò all'indietro e nel farlo tentò di aggrapparsi al tronco di una pianta sulla sponda. Purtroppo mancò in pieno il sostegno e il suo sedere urtò dolorosamente per terra. Ma che diamine era stato?
Una risatina. Era lì allora! Possibile che fosse stata quella ragazza a provocare l'ondata calda che l'aveva travolto?
Ethan si avvicinò quatto quatto al punto da cui sentiva i rumori e la vide. Era davanti a lui e nuotava agilmente nell’acqua poco profonda.
“I suoi capelli!” Al pomeriggio li teneva nascosti nel cappuccio, ma in quel momento la luna li illuminava debolmente. Erano di un rosso acceso e Ethan ne rimase quasi abbagliato.
Stava godendo della visione quando la ragazza balzò sulla riva come un fulmine. Era nuda. Ethan rimase pietrificato.
Altra vampata, questa volta riuscì a non cadere. Ma che diavolo era?
Vide la giovane raccogliere gli abiti e poi notò una cosa essenziale, era asciutta. Capelli, pelle, abiti appena indossati, tutto era completamente asciutto.
Dentro di sé, suo malgrado, sorrise. La giovane non era certo sciocca come Cecil voleva credere.
Quando la ragazza si accorse di lui arrossì violentemente. «Da quanto… quanto tempo sei lì?»
“Eh eh, da un po’ tesorino.”
«Prima non ci siamo presentati. Io mi chiamo Ethan.»
Allungò la mano e quella piccola e morbida di lei la strinse appena.
«Mi… mi chiamo Ta…» tentennava e Ethan dentro di sé continuava a sorridere. Era la prima volta che una ragazza arrossiva davanti a lui, generalmente sua sorella lo faceva apparire uno stolto anche agli occhi del gentil sesso. «Mi chiamo… i miei amici mi chiamano Tali.»
«Bene Tali, piacere di conoscerti! Mia sorella Cecil ti stava cercando per la medicazione di quell’uomo. Vieni, ti porto da lei» e si avviò verso il campo, senza però lasciare la presa sulla sua mano. Era piccola, delicata e calda. Sentiva il cuore in gola a quella prossimità e gli dispiacque quando lei si divincolò e il contatto si interruppe.
Evidentemente la giovane non gradiva certe confidenze.
«Tutto a posto?» La sua voce era dolce, molto diversa da quella di Cecil, che era perentoria e tagliente come una lama.
«Prego?» chiese lui.
«È tutto a posto? Non vorrei averti offeso.»
«Offeso? Io?» Era abbattuto dall'abbandono della sua mano, ma quel tono così preoccupato leniva ogni suo sconforto. «Non preoccuparti Tali, mi sento bene come non mai.»
Il suo sorriso voleva essere incoraggiante e forse ce l'aveva fatta.

«Si può sapere dove sei stato? Era forse dall'altra parte del mondo?»
La solita Cecil.
«Ragazza, mi serve il tuo aiuto.»
«Mi chiamo Tali.»
«Mi serve il tuo aiuto, non il tuo nome.»
L'efficienza in persona, ecco cos'era Cecil. Efficienza, praticità ed ego, l'ultimo smisurato.
Cecil tastò leggermente la ferita. L'uomo era disteso su una coperta, prestata da qualche profugo caritatevole. Appena Cecil sfiorò il taglio il ferito mugolò. «Riuscite a parlare?»
«S… sì.»
Ethan notò che la sorella era preoccupata. «Allora potete dirmi come ve la siete procurata?»
«U… uno di quegli uc… uccellacci maledetti mi ha colpito.»
«Capisco.»
«Cecil che succede?»
«Credo che quei mostri posseggano un qualche tipo di veleno. La ferita non è affatto migliorata, anzi pare peggiorare. Si è infettata di nuovo e l'infezione si sta estendendo. La ripulirò, ma credo occorra un rimedio che io non conosco ancora.»
Tali si avvicinò mesta a Cecil e insieme ripeterono le azioni del pomeriggio. Bende calde, acqua, scodella. Tutto come la volta prima, ma lo sguardo del ferito era più chiaro e Ethan poté riconoscere nei suoi lineamenti e sotto la barba, il volto di un giovane.
«Quanti anni avete, signore?»
L'uomo volse lo sguardo verso Ethan. «Ventisette. Sono… sono un fabbro. Mio padre mi ha spinto a fuggire perché ero il più giovane. Lui e i miei quattro fratelli sono rimasti.»
«Rimasti a fare cosa? Morire?»
«Curatrice, i tuoi modi sono un po’ troppo diretti.»
Cecil rise. «I miei modi sono diretti quando la situazione lo richiede. Quindi ora vi dico, fabbro di ventisette anni, se volete sopravvivere e ritrovare vostra moglie è meglio che stiate zitto e che mi diate del voi. Grazie.»
«Non sono sposato.»
Gli occhi di Cecil lo fissarono per un secondo e poi tornarono sulle mani che veloci si muovevano sul suo fianco. La cura proseguì in silenzio.

«Grazie... Tali.»
Cecil congedò la giovane. Vide Ethan seguirla e dentro si sentì stanca come non mai.
«La vostra età, curatrice?»
«Smettetela, non sono una curatrice. Ho sedici anni e me ne sento almeno trenta» sbuffò.
«Credo che la guerra faccia questo effetto.»
Gli occhi di Cecil guardarono quelli scuri del ferito. Anche lui pareva avesse il doppio dei suoi anni. Forse era vero, forse la guerra faceva invecchiare dentro senza che questo potesse essere cambiato.
«Sì, ma avrò mai più i miei sedici anni? Adoravo i bei vestiti e pavoneggiarmi davanti a mia madre mentre glieli mostravo. Poi mia madre è morta e ho smesso di pavoneggiarmi» rise. «Ma non ho smesso di amare i bei vestiti. Li sfoggiavo alle feste ufficiali dove mio padre e mio fratello maggiore facevano sfoggio delle loro abilità adulatorie. Adulare i nobili e i loro soldi era il loro passatempo.» Risero entrambi.
“Che mi succede? Perché racconto queste cose a un perfetto sconosciuto?”

6.
Mentre tutti si preparavano a dormire, Talitha si era messa in cerca dei due gemelli. Era ora di cambiare la medicazione e la ragazza antipatica l'attendeva ma, come una stupida, si era scordata di chiedere loro il nome! L’unica cosa che poteva fare, per trovarli, era andare alla cieca tra le tende.
Molti dei fuochi che erano stati accesi per preparare i pasti erano oramai spenti. Dalle tende si sentivano provenire i singhiozzi dei bambini che piangevano chiedendo ancora qualcosa da mangiare. Per fortuna finora avevano sempre viaggiato risalendo il corso di un largo torrente, e quindi almeno l’acqua non mancava. Era lo stesso torrente che scendeva dalla montagna per arrivare fino alla città che avevano abbandonato diverse settimane prima.
La ragazza arrivò al torrente e, guardando le sue acque, si ricordò improvvisamente che era da tempo che non si faceva un bel bagno. Dopo essersi guardata intorno, alzò i palmi delle mani e invocando i suoi poteri, creò una fitta barriera di rami e arbusti.
Aveva già iniziato a spogliarsi quando si bloccò all’improvviso per un rumore.
“Cos’è stato?”
Da sotto un cespuglio uscì uno scoiattolo e Talitha scoppiò a ridere per la sua sciocca paura. Finì di spogliarsi e si tuffò; sentirsi abbracciare dalle acque del torrente le diede forza e amore... la natura era sempre stata la sua unica amica e, ogni volta che entrava in contatto con essa, era come sentire l’abbraccio protettivo di qualcuno che l’amava.
Ogni sacerdotessa di Izaera aveva un elemento predominante, che veniva individuato durante l’apprendistato. Poi una volta che l’addestramento finiva, al collo delle sacerdotesse veniva posto un ciondolo contenente il proprio elemento. Ogni tanto era necessario che la sacerdotessa rinnovasse la propria unione con tale elemento in modo che i suoi poteri venissero rigenerati, e ciò avveniva tramite contatto diretto. Una delle abilità di Talitha era che non aveva bisogno di quella rigenerazione perché lei era un contenitore della natura e non un suo tramite come le altre sacerdotesse.
Con un sospiro si allungò e iniziò a nuotare… i ricordi dei giorni passati al tempio si affacciarono alla sua mente con più nostalgia di quanto credeva potesse provare e questo la stupì non poco.
Ora che aveva riacquistato la libertà sentiva la mancanza del tempio? No, mancanza non era la parola giusta… era la sicurezza rappresentata da quelle quattro mura ciò le mancava in realtà. Il non dover nascondere i suoi capelli, il non dover continuamente sfuggire gli sguardi dei sacerdoti e delle sacerdotesse che incontrava… questo le mancava della sua vita al tempio.
Ma la libertà… già, la libertà di poter anche solo scegliere se tenere i capelli legati oppure sciolti, non aveva prezzo! E se per ottenerla avrebbe dovuto passare la sua vita in fuga, beh, lo avrebbe fatto.
Libertà… anche lei l’avrebbe conquistata, esattamente come i Greubywyd! Si è sempre sentita vicina a loro, da quando li aveva visti per la prima volta cinque anni prima…
La Gran Sacerdotessa l’aveva portata con sé nel ghetto dei reietti perché sapesse la verità e vedesse la realtà con i suoi occhi. E lei aveva visto. Esseri grandi, piccoli, alcuni deformi altri bellissimi, ma tutti inevitabilmente spaventosi e sofferenti e tristi. Era stato allora che aveva preso la sua prima decisione da individuo ribellandosi a quello che gli altri avevano scelto per lei.
Al solo ricordo di ciò che aveva visto quel giorno, alcune lacrime le scesero sulle guance. “Ora basta!” si rimproverò per il corso preso dai suoi pensieri, non era quello il momento per provare compassione. S'impose di pensare ad altro e l’immagine di un ragazzo dai capelli neri e dagli occhi blu si affacciò alla sua mente. Avvampò immediatamente e s’immerse fin sotto il pelo dell’acqua. Che stupida, e poi non sapeva neanche come si chiamava! Il pensiero del ragazzo le ricordò all’improvviso l’uomo ferito e la ragazza antipatica.
La medicazione!
Con un balzo riemerse dall’acqua e con un movimento della testa portò indietro i capelli. Si doveva sbrigare. Mentre lei si crogiolava, c’erano malati che avevano bisogno di cure perché, anche se non condivideva i sentimenti di quelle persone, lei rimaneva comunque una sacerdotessa e doveva fare quello che era in suo potere per alleviare il loro dolore, iniziando dal portare le bende pulite alla gemella.
Sulla sponda del torrente si accorse di non avere nulla con cui asciugarsi, cosa naturale d’altronde visto che il bagno non era previsto. Si guardò intorno e invocò il fuoco dentro di sé alzando la sua temperatura corporea, e facendo così evaporare l’acqua dalla sua pelle e dai suoi capelli.
Si rivestì in fretta e, con un gesto della mano, eliminò la barriera naturale. Una voce improvvisa e imprevista la fece sobbalzare. Era il ragazzo, il gemello dell’antipatica! Da quanto tempo era lì? Cosa aveva visto?
«Da quanto… quanto tempo sei lì?» “Oh Izaera! Fa che non sia rimasto all’interno della barriera!”
Lui si avvicinò di più e si presentò senza rispondere alla sua domanda.
«Prima non ci siamo presentati. Io mi chiamo Ethan» disse, porgendole la mano.
Deglutendo a vuoto, Talitha ricambiò la stretta. «Mi… mi chiamo Ta…»
“Che sciocca stavo per dire il mio vero nome, senza pensarci.”
Il modo in cui lui le stringeva la mano e il calore che le trasmetteva, le davano una piacevole sensazione di sicurezza. «Mi chiamo… i miei amici mi chiamano Tali.»
“O almeno così mi piacerebbe che mi chiamassero se avessi degli amici” aggiunse tra sé.
«Bene Tali, piacere di conoscerti! Mia sorella Cecil ti stava cercando per la medicazione di quell’uomo, vieni, ti porto da lei» e, sempre tenendole la mano, la ricondusse verso il centro dell’accampamento.
Talitha avrebbe voluto dirgli che poteva camminare anche senza che lui la tenesse per mano ma qualcosa le bloccava le parole sulle labbra. Passarono accanto a un fuoco che non era ancora stato spento e il suo riflesso sui suoi capelli attirò lo sguardo di un soldato che era lì vicino. “Il cappuccio, maledizione!” pensò immediatamente.
Tolse di scatto la mano dalla stretta di Ethan. «Aspetta Ethan!»
Si tirò su il cappuccio e, allo sguardo interrogativo del ragazzo, rispose: «Scusa… il cappuccio. Bene continuiamo, fai strada!»
Lui le porse di nuovo la mano ma questa volta lei la ignorò arrossendo vistosamente e abbassò lo sguardo.
«Da questa parte, seguimi !»
Ma percepì nella voce del ragazzo una nota di fastidio che le fece alzare di nuovo gli occhi.
«Tutto a posto?» domandò incuriosita.

Quando arrivarono, Cecil, fu antipatica come sempre. “Ma come fa Ethan a sopportarla?” si chiese Talitha.
Il malato raccontò che erano stati i Greubywyd ad averlo ferito e Cecil gli spiegò che le sue ferite erano gli effetti del loro veleno.
Talitha avrebbe voluto dire la sua, ma si limitò a stringere le labbra e a rimanere in silenzio.

Dopo aver medicato il ferito Talitha si allontanò il più possibile, seguita da Ethan. La ragazza gli lanciò un’occhiataccia.
«Di certo la gentilezza non è il punto forte di tua sorella, vero? Sei anche tu così?» chiese stizzita.
Lui l’afferrò per un braccio, per farla voltare verso di lui, e le rispose: «Ti sembro come lei?»
«In fondo siete gemelli» ribatté la ragazza con indifferenza, ma poi, rendendosi conto di essere stata ingiusta proseguì: «Scusami, non volevo, è che mi ha innervosito e allora…» Fece una risatina nervosa. «Cecil deve essere contagiosa!»
Anche Ethan scoppiò a ridere. «Concordo in pieno! Solo lei riesce a mettere sempre tutti di cattivo umore.» Un’altra risatina. «Posso accompagnarti alla tua tenda?»
«S… sì, se vuoi.»
Passando accanto alla tenda che gli adepti del tempio usavano per dormire, Talitha si calcò il cappuccio ancora di più sulla testa e cercò di non entrare nel cerchio di luce del fuoco. Ethan la guardò incuriosito e, una volta lontani, le domandò: «Sai, è da prima che te lo volevo chiedere: per quale motivo indossi il cappuccio? Non fa tanto freddo… siamo in estate.»
“E ora che gli dico?” ebbe un attimo di panico Talitha. Mentre stava pensando a una scusa plausibile, un lamento lontano si fece strada fino a loro. Si guardarono e, intendendosi al volo, andarono nella direzione da cui proveniva quel pianto.
Una donna, accanto alla tenda usata come luogo di medicazione provvisorio dell’accampamento, piangeva sommessamente mentre tentava di allontanare una bambina aggrappata disperatamente alla maglia di un uomo disteso a terra, immobile.
«Ti prego, amore…» La donna non riusciva a scostare la bambina perché il dolore le aveva tolto qualsiasi energia.
«Papà, papà! Papà parlami!» urlava la bimba.
Una sacerdotessa uscì dalla tenda vicino a loro e si inginocchiò accanto alla piccola.
«Mi spiace, Ewin, mi spiace tanto!» le disse accarezzandole i capelli poi, rivolta alla donna: «Piangi pure Elys, mi occuperò io di tua figlia.»
A quel punto la donna si prese il viso tra le mani e non frenò più le lacrime mentre un grido le usciva dalle labbra.
Ethan tratteneva il respiro e un ombra di dolore gli attraversò il volto.
«Ethan?» Talitha gli poggiò una mano sul braccio e lui, con un sorriso triste, la guardò e le fece capire di stare bene. Quindi andò ad inginocchiarsi accanto alla sacerdotessa e le chiese se potevano essere utili in qualcosa. Talitha restò un poco dietro di lui, nascosta, ma la sacerdotessa la notò ugualmente e cercò di metterla a fuoco. La ragazza allora abbassò il volto e lei desistette, ma rispose comunque alla domanda di Ethan. «Potreste occuparvi della bambina mentre io penso alla madre? Si chiama Ewin.»
Ethan le rivolse un cenno d’assenso e, rivolto alla piccola disse: «Ciao Ewin, mi chiamo Ethan, ti piacerebbe venire con me?»
«No, io rimango con papà! Io ho... lui ha paura del buio, se si sveglia ed io non ci sono, come fa?»
«Ma ci sono la mamma e la sacerdotessa con lui, non preoccuparti.»
«No, lasciami stare! Papà ora si sveglia ed io devo rimanere con lui! Papà dice che non mi devo allontanare da lui perché è pericoloso andare in giro da soli, ci sono i mostri! Quando siamo andati via, un mostro lo ha ferito. Non posso allontanarmi da lui, e se i mostri tornano?»
«Ewin, vai con Ethan, non ti succederà nulla» cercò di rassicurarla la sacerdotessa
«No, papà ora si sveglia, mi sorride e mi porta a letto e mi racconta una fiaba!»
«Ewin… papà non…» La madre tentò di parlarle ma riuscì a pronunciare solo parole sconnesse.
«Papà, papà, dai, svegliati… dobbiamo finire la fiaba, ricordi? La principessa doveva andare dal suo papà per chiedergli di non partire, ricordi papà? Il papà non doveva partire e lasciare la principessa da sola! Ricordi papà? Non doveva partire… papà, papà, ti prego, svegliati! Il papà non doveva andare via perché… perché, papà?» Lacrime inconsapevoli iniziarono a scivolarle dagli occhi.
«Perché la principessa aveva paura che potesse succedere qualcosa di brutto al suo papà» intervenne Talitha avvicinandosi. La fiaba di cui parlava Ewin era una delle più popolari tra i bambini.
La sacerdotessa, Ethan ed Ewin si girarono verso di lei mentre Elys continua a piangere.
«La… tu… la conosci?» domandò la bambina.
«Sì» le rispose Talitha, avvicinandosi ancora di più
«Te l’ha raccontata il tuo papà?»
«Io non ho un papà, e nemmeno una mamma, non li ho mai conosciuti. Ma se vuoi, posso raccontarti la storia» disse sorridendole e porgendole la mano.
La bambina guardò la mano protesa verso di lei e poi guardò il padre. «Ma io non posso allontanarmi da papà, lui ha detto che non devo allontanarmi, se poi si sveglia e non mi vede si preoccupa!»
«E allora non ci allontaneremo tanto, ci metteremo un po’ più in là, sedute su quel tronco» rispose Talitha indicando un albero caduto poco lontano. «Così se si sveglia potrà vedere che sei ancora vicino a lui, va bene?»
Ewin guardò il tronco, guardò il padre e infine guardò lei. «Va bene, ma non più lontano!»
«Promesso!» le sorrise e, dopo aver stretto la manina della bambina nella sua, le chiese: «Può venire anche il mio amico Ethan con noi? Anche a lui piacciono le fiabe, vero Ethan?»
«Sì, mi piacciono tanto» rispose lui rivolgendo un sorriso grato a Talitha.
«Va bene» consentì la piccola mestamente.
Mentre si allontanavano, la sacerdotessa li ringraziò con un cenno della testa, poi si avvicinò a Elys, l’abbracciò e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Questa annuì e la sacerdotessa coprì l’uomo con un telo.
Anche Ewin assisté alla scena: «Perché lo copre?»
Ethan stava per risponderle ma Talitha gli fece cenno di non parlare.
«A che punto eravate rimasti con la fiaba? Ah, sì… il padre stava per partire e la principessa lo supplicava di non farlo.»
Prese in braccio Ewin e iniziò a raccontare.
«... la principessa entrò di corsa nella grande Sala del trono dove il re, suo padre, era seduto intento a sistemare gli ultimi documenti prima della sua partenza per la guerra contro il regno nemico.
La principessa gli si avvicinò e gli disse: «Vi supplico padre, non partite.»
Il re, alzando la testa dai documenti, le rispose: «Devo farlo, figlia mia, devo andare a difendere il nostro paese e il popolo che crede in noi.»
«E io padre? Non pensate a me? Io rimarrò qui, sola, ad attendere il vostro ritorno… perché tornerete, vero?» Il padre non rispose e allora la principessa insistette: «Padre, tornerete da me?»
Il padre si alzò e andò dalla principessa, le prese le mani tra le sue e le disse dolcemente: «Non posso farti una promessa a cui non sono sicuro di poter tener fede.» Accarezzando il volto della figlia, mentre stringeva nell’altra mano quella piccola di lei, continuò: «Se non tornerò tu mi devi promettere di non piangere perché le tue lacrime mi addolorerebbero. Dovrai esser forte, sarà difficile, lo so, ma io ti sarò sempre accanto.»
La principessa, che all’udir le parole del padre aveva iniziato a piangere, gli chiese: «Se voi non tornerete da me vivo, come potrete essere con me?»
Il padre l’abbracciò e la tenne stretta a sé poi, con la voce piena d’amore rotta dall'emozione, le disse: «Finché la luna brillerà alta nel cielo, io sarò sempre con te. Finché le stelle splenderanno, io sarò sempre con te. Finché nel tuo cuore ci sarà anche un piccolo ricordo di me, io sarò sempre con te! Ti proteggerò anche se, con il corpo, non potrò starti vicino. Ricordati che finché il tuo cuore custodirà il mio, il mio cuore batterà nel tuo!»
La principessa abbracciò forte il re e tra le lacrime gli disse: «Allora andate padre mio, andate sicuro e tranquillo perché il mio cuore custodirà il vostro, perché le stelle splenderanno ogni notte della mia vita, perché la luna brillerà immortale su di me. Andate, padre mio, perché le mie lacrime non addoloreranno la vostra partenza! Ma ora, tra le vostre braccia lasciate che esse scorrano sulle mie guance; domani, ve lo prometto, non ci saranno più.»
Il re partì il giorno dopo e la principessa lo salutò dall’alto della torre.
Lui non fece ritorno ma non morì mai perché continuò a vivere per sempre nel cuore della principessa.
Quando il re nemico venne a sapere del coraggio della principessa, si presentò davanti ai cancelli del palazzo di lei. Appena la vide se ne innamorò perdutamente e le chiese di sposarlo. Lei acconsentì a patto che lui deponesse le armi e che le promettesse di non far più la guerra con nessun regno. Lui acconsentì e i due regni prosperarono.
La principessa ebbe un solo figlio maschio a cui diede il nome del padre.
Quel principe crebbe e divenne un uomo forte e coraggioso perché nel suo cuore batteva l’amore della principessa per suo padre.»

Durante il racconto Ewin si era stretta a Talitha e, alla fine della storia, domandò: «Anche il mio papà è forte e coraggioso, vero?»
«Certo tesoro» le rispose la ragazza, stringendola ancora di più
«Anche il mio papà non… si sveglierà, vero?»
Ethan iniziò ad accarezzarle la testa mentre lei le diceva dolcemente: «No, Ewin, non tornerà, ma se tu non lo dimenticherai, lui non ti lascerà mai, rimarrà per sempre in te e ti proteggerà.»
La bambina le strinse le braccia attorno al collo e iniziò a piangere tutto il suo dolore.
Dopo un po’ si addormentò sfinita dalle troppe lacrime ed Ethan le baciò la testolina, poi guardando la ragazza, sussurrò: «Grazie.»
«Non ho fatto nulla» gli rispose lei sorridendo
Ethan continuava a guardarla come se volesse chiederle qualcosa ma non riusciva a trovarne il coraggio, lei se ne accorse e gli domandò se c’era qualcosa che voleva dirle.
«In effetti… prima hai detto che non hai genitori e poi ti copri sempre i capelli e il viso. Perché?»
Talitha deglutì a vuoto. “E così alla fine si è ricordato che prima non ho risposto.”
Guardò davanti a sé come se stesse assistendo a uno spettacolo che solo lei poteva vedere, e iniziò a parlare a bassa voce per non disturbare Ewin.
«Non so chi siano i miei genitori, sono stata abbandonata appena nata davanti al te... davanti a una taverna» mentì, non poteva dire neanche a lui chi era, anche se ormai lo considerava quasi un amico. «Sono stata in quella taverna per tutta la vita… o meglio, per i miei primi quindici anni di vita. Non mi hanno mai trattato male ma neanche mi hanno mai voluto bene. Diciamo che per loro ero solo un accessorio, sì un accessorio da tenere in mostra e basta. Alla fin fine, non mi importa un granché, sai? Da loro ho imparato che è meglio non fidarsi di nessuno e che l’amicizia e l’amore sono dei rapporti interpersonali sopravvalutati e del tutto inutili. Guardami, sono cresciuta benissimo anche senza il loro amore!» Ethan la guardò con tanta tristezza negli occhi, lei piegò la testa di lato incuriosita dal suo sguardo ma non osò chiedergli spiegazioni e, invece, continuò: «Tengo il cappuccio sulla testa e mi copro il viso perché la gente è curiosa e viene sempre attratta dai miei lineamenti e a me non piace essere al centro dell’attenzione.»
“Speriamo che questa se la beva perché non mi è venuto in mente niente di più plausibile” pensò abbassando la testa per nascondere la propria espressione.
«Bene, credo che ora sia meglio riportare Ewin dalla madre e andare a dormire un po’ anche noi, domani ci aspetta la solita lunga giornata di marcia» finì sospirando, rassegnata all’idea che l’indomani sarebbe stato un giorno come tutti gli altri.
Si alzarono facendo attenzione che la bambina non si svegliasse e, dopo averla messa al sicuro tra le braccia della madre, si salutarono e si diressero ognuno nella propria tenda.
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demon black
 
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LA SOTTILE DISTANZA (dal capitolo 7)

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 21:00

7.
«Cittadini, sono qui per conto del principe per rassicurarvi. La meta è vicina. Lì troveremo il riparo necessario per poterci difendere dai mostri.»
Cecil ridacchiò. «Messaggero, ci sono stati otto attacchi solo nell'ultima settimana. I Greubywyd sanno perfettamente dove stiamo andando! Che conta se ci rintaniamo? Dovremmo rintanarci per sempre?»
Il messaggero non la considerò neanche, spronò il cavallo e proseguì verso il gruppo di profughi successivo.
«Quando deciderai di chiudere la bocca? Sei sempre la solita polemica.»
«Oh dèi! Ethan sei insopportabilmente ingenuo! Non vedi che stiamo andando al massacro? Siamo fuggiti dalle nostre case per cosa? Per essere continuamente attaccati? Per dormire nascosti in mezzo a una foresta, convinti che quegli uccellacci non ci trovino?» Sbuffò e si allontanò dal fratello.
Il campo era approntato in un lieve avvallamento, dove i tronchi degli alberi erano più grossi e fornivano buona protezione da eventuali attacchi. Cecil, ad ogni fermata, precisa come la traiettoria del sole, andava ad assistere il Fabbro che si accompagnava a una famiglia di poveracci che lo aiutavano nei suoi bisogni quotidiani e provvedevano al suo cibo.
«Oh, salve mia curatrice. Belle notizie dal Principe vero?» l’accolse il suo paziente con un sorriso.
«Se voi le definite tali. Spero che il Principe sia intenzionato anche a darci notizie della nostra città.»
La nuova famiglia del Fabbro sapeva già ciò di cui Cecil aveva bisogno e ad ogni sosta ella era certa di trovare le bende già a bollire sul fuoco.
«La ferita è completamente libera dall'infezione, il vostro corpo ha sconfitto il veleno.» Gli occhi di Cecil erano glaciali, quelli del Fabbro invece prevedevano già una catastrofe.
«E quindi?»
«E quindi ora si cuce amico mio. Estella, puoi trovarmi un ago? Se non sbaglio la signora delle mele dovrebbe averne un paio.»
La piccola Estella partì di corsa.
«Signora delle mele?» chiese il ragazzo inarcando le sopracciglia.
Cecil rise: inconsapevolmente aveva utilizzato il nomignolo che da piccola aveva dato a quella vecchietta gentile del frutteto. «Sì, lei in città vendeva le mele. L'ho sempre chiamata così, da che ricordo.» Ridacchiavano ancora entrambi quando Estella tornò tutta felice con l'ago in mano. «Possedeva un bellissimo frutteto, si estendeva per nemmeno venti metri per due, ma era bello. Ci stavo bene.» Cecil disfece una delle bende che aveva accuratamente bollito, ricavandone un lungo filo, anche se un po’ grossolano per la verità. Passò l'ago sul fuoco e fissò il Fabbro. «Fabbro, mio caro amico... ora patirete molto dolore, quindi riprendete pure il vostro caro legnetto fra i denti.»
La giovane lavorò per minuti che sembrarono ore. Poteva sentire sotto la mano i muscoli dell'uomo che si tendevano nel dolore e i suoi denti graffiare la corteccia del legno. Con un coltello tagliò il filo e poi bendò il tutto. Il Fabbro pareva svenuto. Nel guardarlo semi addormentato e spossato dal dolore a Cecil venne da ridere. Un attimo prima era tutto felice di vederla. «Il peggio è passato caro Fabbro, riposate.»
«Lasher.»
«Prego?»
«Lasher. Il mio nome è Lasher.»
«Perfetto. Riposate, Lasher.»
«E il vostro Curatrice?»
«Direi che Curatrice è perfetto» disse andando via e lasciandolo alle cure della piccola Estella.
Non era il momento adatto per creare legami.
Tornando indietro verso la zona che condivideva con il fratello e altri fuggiaschi, lo vide in compagnia di Tali.
“Giochi con il fuoco mio caro fratello e il fuoco brucia.”

«Credi che la salvezza sia davvero vicina, Tali?»
«Non ti fidi dei portavoce del Principe?»
«Sì, mi fido, ma mi chiedo se mai avremo pace. I Greubywyd sono instancabili, sono stati creati per esserlo, e noi siamo già allo stremo.»
Talitha sospirò. «Dobbiamo raggiungere la fortezza di Hores. Gli dèi ci proteggeranno, vedrai che tutto si sistemerà.»
Ethan sorrise, ma non era per niente convinto delle parole di Tali. Cecil aveva ragione, come potevano i Greubywyd essere così tanti? E perché non venivano fornite notizie sull'assedio?

8.
«Sì, mi sembra abbastanza grande da poterci fornire un buon riparo per questa notte.»
La corteccia sotto le sue dita era ruvida e seghettata: l’albero sembrava piuttosto vecchio e i numerosi nodi indicavano che aveva perso molti rami. «Vai a cercare la legna per il fuoco, Aki, io preparo la cena.»
Il cane si allontanò correndo proprio mentre una ragazza vestita con ampi pantaloni da uomo e una casacca tutta sporca di terra e foglie sbucava da dietro l’albero.
«E cosa vorresti mangiare, eremita?»
«Ciao Helena. Sei sola, dov’è Aran?»
«È andato dal capitano a fare rapporto. Io mi sono fermata a darti questo» disse, appoggiando a terra il corpo senza vita di un coniglio selvatico. «È un coniglio. L’ho appena catturato ed è ancora caldo, scuoialo subito. Lo metto qui, accanto alla sacca.»
«Grazie» disse l’uomo allungando un braccio verso l’animale. «Torna quando avrai finito, te ne lascerò un po’.»
«Va bene, grazie. Buon appetito» rispose lei allontanandosi.
Con un sospiro l’uomo si staccò dal tronco e si accovacciò accanto alla pesante sacca da viaggio, cercando qualcosa al suo interno. Quando l’ebbe trovato, si tirò su agilmente e tornò a fronteggiare l’albero. Allungò il braccio fino a toccare uno dei rami più bassi e vi legò attorno due cordicelle a cui appese il coniglio, dopodiché iniziò a spellarlo lentamente servendosi del coltello che teneva nella custodia fissata alla cintura.
Appoggiò la pelle, le zampe e le interiora a terra pensando che, dopo aver messo l’animale allo spiedo, avrebbe scavato una buca e le avrebbe seppellite per evitare di attirare gli animali selvatici. Poi cercò la borraccia per lavare la carcassa e le sue mani dal sangue, ma non appena la sollevò si rese conto che c’era meno acqua di quanto pensasse e che di sicuro non gli sarebbe bastata. Piantò con forza il coltello nel terreno e chiamò il suo cane.
«Aki, dove sei? Vieni qui, subito!» Lo sentì arrivare di corsa e fermarsi a pochi centimetri da lui. «Devo andare a prendere l’acqua al torrente, tu fai la guardia alla nostra cena.» Gli accarezzò la testa e si avviò.
Pur concentrato sui rumori che provenivano da tutt’intorno, nella confusione generata dalle persone accampate per la notte gli era difficile riuscire a percepire qualcosa che non fossero richiami soffocati, rumori di stoviglie, versi di animali.
Con un sospiro si avvicinò a un gruppo di bambini che stavano giocando poco lontano.
«Allora piccoli, chi ha voglia di guadagnare un bella moneta di rame?»
Qualche secondo di silenzio mentre i bambini valutavano la proposta, e lui che l’aveva lanciata.
«Io, anche se la mamma dice che non devo parlare con te» rispose una vocetta autoritaria, probabilmente il capo della combriccola.
«E perché non dovresti parlare con me?» chiese l’uomo porgendo nel contempo la mano sinistra, che venne immediatamente stretta da un’altra più piccola e morbida.
«Perché tu sei strano e stai sempre da solo con il tuo cane e fai paura» rispose il bambino, senza però dare segno di essere particolarmente intimidito.
«E perché tu non ubbidisci alla mamma?» chiese allora l’uomo.
«Perché io sono coraggioso e non ho paura di niente, neppure dei Greubywyd» rispose il piccolo in tono spavaldo.
«Capisco. E dimmi, da dove vieni?»
«Dalla città. Papà è un maniscalco, il più bravo di tutti, ed è rimasto per aiutare gli alchimisti a forgiare le armi magiche per vincere i Greubywyd.»
«Le armi magiche, eh? Si illudono ancora che l’alchimia possa aiutarli, vero?»
«Eh?» esclamò il bimbo, guardandolo perplesso.
«Niente, parlavo da solo.»
«Allora è vero che sei matto.»
L’uomo rise sommessamente. «Sì, può darsi. Eccoci arrivati. Mi sembra di sentire il rumore del ruscello.»
Si era appena inginocchiato per bere quando un guaito prolungato e agghiacciante lo gelò con la mano protesa verso la superficie fredda dell’acqua. I peli gli si drizzarono sulla nuca e sulle braccia e con una velocità insospettata per un uomo cieco fin dalla tenera infanzia, si precipitò verso il luogo dove aveva lasciato le sue cose. Aveva riconosciuto in quel verso angoscioso il richiamo del suo cane.
Nella foga della corsa e nella preoccupazione di accertarsi che cosa potesse avere spinto Aki a lanciare quel lamento così accorato, andò a sbattere contro diverse persone e calpestò più di un bivacco, ma il senso dell’orientamento, che tanti anni di buio avevano reso quasi infallibile, lo guidò senza esitazioni alla meta. Aveva imparato a seguire la scia degli odori; gli bastava sentirli una sola volta e non li dimenticava più. Era questa abilità che gli aveva permesso di sopravvivere nei boschi, isolato, dopo la morte dei genitori e il suo rifiuto di vivere insieme ai suoi simili.
«Aki!» gridò, quando fu arrivato all’albero dove aveva lasciato le sue poche cose. «Aki!» Nessuna risposta, solo un respiro affannato e qualche gemito.
«Oh, mi dispiace! Non sapevo che fosse il tuo cane, cieco.»
«Aki.» Ignorando la voce sarcastica e la risata sguaiata che l’accompagnava, l’uomo si inginocchiò accanto all’animale agonizzante e annaspò alla ricerca della sua testa. La sua aura si stava rapidamente spegnendo e il cane non ebbe che la forza di leccare un’ultima volta le dita del padrone prima di morire. L’uomo fece scorrere la mano sul collo e poi sul ventre dell’animale fino a trovare il taglio da cui il sangue continuava ad uscire copioso insieme a parte delle viscere. Un’ira cupa iniziava a crescere in lui. «Cosa ti aveva fatto? Perché hai dovuto ucciderlo?» chiese a bassa voce, rivolto all’uomo che ancora continuava a sghignazzare lì vicino.
«Avevo fame e volevo il coniglio» ribatté questi con un tono carico di sufficienza, come se gli fosse dovuto, «ma questo ammasso di pulci si è messo in mezzo ringhiandomi contro.»
Mentre lo ascoltava parlare, la mano del cieco era lentamente scivolata nella tasca dei pantaloni. Le dita sentirono il manico in legno del coltello a serramanico e gli si strinsero attorno in una presa salda. Percepiva la presenza dell’altro lì, a pochi passi da lui… Il corpo del cane, ormai immobile, urlava vendetta, e il cieco non si sarebbe fatto pregare. Doveva solo essere estremamente veloce e preciso, perché non avrebbe avuto una seconda possibilità.
Estrasse il coltello e con uno scatto rapido si scagliò nella direzione da cui proveniva la voce, allargando il braccio in un semicerchio nel tentativo di affondare la lama nel corpo dell’uomo, ma questi si scansò in tempo e il movimento si concluse fendendo null’altro che l’aria. “Maledizione” pensò con rabbia, avvertendo di averlo mancato. Ma, quasi immediatamente, sentì provenire dalla sua destra un rumore di passi che calpestavano velocemente l’erba. Comprese in un attimo che l’uomo stava cercando di fuggire, e non ci mise molto a decidere di corrergli dietro. Il sangue gli pulsava nelle tempie, scorreva nelle sue vene come un fiume e gli dava forza e, stranamente, anche lucidità.
Nell’accampamento stavano rapidamente scendendo le ombre della sera, ma per lui abituato da anni all’oscurità assoluta non faceva alcuna differenza. Correva in mezzo ad un intrico di cespugli e rovi che si faceva sempre più fitto, con l’orecchio teso ai rumori che provenivano dall’uomo in fuga davanti a lui. Lo seguiva con passo sicuro, certo che l’altro avrebbe evitato di ficcarsi in qualche roveto. Colpì più volte alcuni ramoscelli bassi, che gli sferzarono le braccia e le gambe, procurandogli tagli superficiali ma dal bruciore fastidioso, ma nulla gli impedì di rallentare il passo. Respirava profondamente per non avvertire troppo la stanchezza della corsa e continuava a stare agilmente alle calcagna dell’uomo, arrivando persino a sentire il suo respiro che, invece, diventava sempre più affannato.
“Scuoiare un coniglio e scuoiare un uomo non dovrebbe essere troppo differente”, pensò crudelmente, mantenendo le distanze inalterate. La sete di sangue cresceva sempre più dentro di lui, la sensazione del cane morente sotto la sua mano era di una crudezza che ravvivava il suo furore ad ogni passo. Voleva vendetta, e l’avrebbe avuta.
Impegnato nell’inseguimento, si rese conto dopo alcuni minuti che avevano corso a semicerchio. Non ne comprese il motivo, ma a confermarglielo fu l’odore delle viscere del coniglio che, nonostante non fosse ancora così vicino, gli arrivò con forza alle narici.
Ma a bloccarlo di colpo, quando si ritrovarono nel punto da cui erano partiti, non fu l’odore di carne dell’animale, quanto piuttosto l’urlo stridulo di sorpresa e paura del ragazzino che lo aveva accompagnato al torrente.
«Un altro passo, e lo uccido» minacciò l’uomo, con la voce rotta dal respiro ansimante. «Non dovresti lasciare i coltelli in giro. È pericoloso!»
Il cieco si fermò di colpo maledicendosi per la propria stoltezza. Avvertiva nell’aria un senso di pericolo, e i gemiti di sofferenza che arrivavano dal bambino non facevano altro che confermarglielo. Biascicò tra sé un’altra imprecazione: doveva essere venuto a restituirgli la borraccia e tra tutti i momenti in cui poteva tornare, aveva scelto proprio quello più inopportuno!
Rimase immobile ma non per paura, e neppure per darla vinta all’assassino davanti a lui. Stava fermo per poter ragionare e per meglio permettere ai suoi sensi di valutare la situazione.
Dal rumore del respiro affannoso dell’uomo calcolò che dovesse essere distante poco più di cinque braccia. Non troppi per tentare di colpirlo lanciandogli contro il coltello, ma troppo dannatamente pericoloso per il bambino. Non sapeva come lo stava tenendo e quale era la sua posizione, per cui le possibilità di colpirlo erano troppo elevate per correre quel rischio.
Stava ancora cercando una soluzione, quando avvertì un altro fruscio di piedi che strisciavano sull’erba provenire da un punto imprecisato dietro all’uomo. Aggrottò la fronte, cercando di capire cosa potesse essere, ma quando udì la voce di Helena il quadro della situazione gli si dispiegò limpidamente.
«Lascialo andare» sibilò la ragazza con tono sicuro. «Ti tengo sotto tiro, non fare movimenti bruschi.»
Helena si stava avvicinando, il cieco lo comprendeva dalle parole sempre più nitide a mano a mano che la distanza da loro diminuiva.
«Tutto questo per un maledetto coniglio» disse l’uomo in tono sprezzante.
“Dev’essersi voltato di scatto”, pensò il cieco quando sentì uno strillo di dolore provenire dal bimbo.
«Esattamente» confermò la ragazza con tono fermo. «Tutto questo per un maledetto coniglio che io ho cacciato e tu vuoi rubare, dopo aver ucciso il cane del mio amico. Vuoi uccidere anche il ragazzo, già che ci siamo? Le leggi che riguardano l’omicidio sono piuttosto chiare…» La frase lasciata cadere in quel modo aveva fatto capire all’uomo quello che lo avrebbe atteso, ma ormai la situazione era sfuggita al suo controllo e non aveva modo per rimediare. Gli era rimasta una sola, unica soluzione: ucciderli tutti.
La mano che reggeva il coltello si mosse velocemente per scagliarlo contro la ragazza, ma lei fu più svelta e la sua arma si incassò nel fianco dell’uomo fino all’impugnatura, penetrando nelle costole e raggiungendo il fegato, mentre quella lanciata da lui si perdeva rimbalzando nell’erba ad abbondante distanza dal suo bersaglio.
Il bambino era riuscito a divincolarsi dalla presa proprio nel momento in cui l’assassino allargava il braccio per colpire, cadendo per terra e sgattaiolando via rapidamente.
Fu in quel momento che anche il cieco intervenne. Dopo aver sentito il gemito di sofferenza dell’uomo colpito, si lanciò nella sua direzione. Lo abbracciò e, nello slancio, caddero insieme per terra. Il colpo sul terreno fece penetrare la lama che l’assalitore aveva piantata nel fianco ancora più in profondità. Il cieco si ritrovò seduto sopra di lui, faccia a faccia. I suoi occhi non vedevano, ma gli altri sensi percepivano ogni cosa: la paura, il terrore, il baratro che si stava aprendo sotto di lui. Fissò i suoi occhi bui in quelli dell’assassino. «Cosa si prova a morire?»
Ma non arrivò nessuna risposta. La lama che penetrò nella carne dell’uomo fino al cuore gli impedì di rispondere.
“E presto sarai raggiunto da questa banda di pezzenti” pensò cupamente il cieco mentre ripuliva sull’erba il coltello imbrattato di sangue.

9.
DAL DIARIO DI VIAGGIO DEL PRINCIPE AVERON DEI NOIADOCHAS, A.C. 215, MESE DELL'AQUILA, QUARANTESIMO GIORNO.

Eccola finalmente! Hores, la fortezza nel monte. Sapevo che sarebbe stata qui, sapevo che l'avremmo trovata!
È incredibile. Le mura da questa distanza sembrano ancora integre e perfino i portoni in legno appaiono intatti.
Ho forzato la marcia negli ultimi giorni, non volevo entrare nel mese del tasso trovandomi ancora nella foresta, e la fortezza ora è in vista.
Ho ordinato una sosta. Manderò avanti gli apripiste per verificare che non ci siano sorprese e che i Greubywyd non sorvolino i cieli proprio ora. Non possono sapere dov'è la fortezza, ma possono sapere dove siamo noi.
Come speravo, come sapevo... la foresta ha impedito loro di sfruttare la propria forza. Ci hanno provato, naturalmente. Sono scesi dal cielo e si sono lanciati tra le fronde degli alberi: alcuni sono morti senza che noi sprecassimo una freccia, schiantandosi suoi grossi tronchi o perdendo le ali infilzate dai rami, altri non hanno resistito abbastanza a lungo da nuocere ad alcuno dopo essere arrivati a livello del suolo praticamente moribondi. Solo una volta uno dei loro assalti ci ha colti alla sprovvista, e una donna ne ha pagato il prezzo; forse è stata lei stessa ad allontanarsi troppo dall'accampamento e dalle sentinelle, forse è stata sfortuna, non lo sapremo mai.
Il nemico però ha pagato per il suo errore e molte bestie sono state abbattute. Le nostre vittorie hanno risollevato il morale della gente e hanno fatto sì che marciassero con più celerità e convinzione.

L'avanguardia sta tornando, non sembrano preoccupati. Ho ordinato a Ezdo di andar loro incontro e di riferirmi personalmente le loro scoperte.
Qualche giorno fa ho annunciato che la meta era vicina, fidandomi di mio padre e delle indicazioni che mi aveva dato nel nostro ultimo incontro, e lui non mi ha tradito. Ordinerò di iniziare immediatamente la salita, abbiamo ancora almeno tre ore di luce e se saremo svelti la maggior parte della gente sarà dietro le mura interne entro il tramonto. Sono certo che saranno ben lieti di compiere quest’ultimo sforzo, per essere finalmente al sicuro.

10.
Dopo la morte del suo cane, Val era rimasto solo e senza nessuno che potesse aiutarlo durante il viaggio. Era vero che aveva imparato ad essere quasi completamente autosufficiente, ma affrontare un percorso sconosciuto senza una guida si era dimostrato piuttosto complicato anche per lui.
Preoccupata, Helena aveva chiesto a Tali, una ragazza che era stata in un certo senso adottata dalla sua famiglia, di affiancarsi a Val e assisterlo per quanto possibile, e per quanto lui glielo avesse permesso.
Era passata più di una settimana da allora e a malapena Val rivolgeva la parola alla sua giovane scorta. Lei però non sembrava curarsene troppo, anzi sembrava quasi sollevata che l’uomo non le ponesse domande sul suo passato e si limitasse a darle qualche ordine sporadico.
Anche quella sera si erano sistemati, come al solito, ai margini dell’accampamento; Tali si era allontanata per cercare la legna per il fuoco mentre Val puliva e tagliava i funghi che avevano raccolto durante la giornata.
«Questa sera non tornerò a dormire nella tenda con gli altri» disse la ragazza quando tornò portando con sé una bracciata di rami secchi che fece cadere per terra accanto al cerchio di pietre già pronto.
«Hmm» rispose l’uomo, senza dimostrare particolare interesse e senza interrompere le sue faccende.
Tali ammucchiò alcuni dei ramoscelli più piccoli e delle foglie secche e con un cenno della mano fece scoccare la scintilla che li incendiò all’istante.
Avevano appena cominciato a consumare la misera cena quando Val allontanò da sé la ciotola e l’appoggiò per terra ai suoi piedi.
«Quanti anni hai, Tali?» chiese all’improvviso.
«Quindici. Perché?»
«Hai mai pensato di accasarti?»
Il boccone che stava masticando le andò di traverso, procurandole uno spasmo di tosse e lasciandola senza fiato.
«C…come?»
«Mi saresti più utile di un nuovo cane. Sotto più di un punto di vista» ghignò. «E potrei nasconderti meglio di quanto tu non riesca a fare da sola.»
«Ma… veramente…»
«Mi piace il fatto che tu non sia una di quelle donnette pettegole e impiccione. Tra poco tutto questo sarà finito» disse, indicando con un gesto della mano tutto quello che li circondava, «e tu potresti avere una possibilità.»
«E saresti tu a darmela?» chiese lei dubbiosa.
«Non pensare di ingannarmi. Sono cieco ma non stupido: ho capito quello che sei.» Le si avvicinò. «Non si accende un fuoco senza una pietra focaia e senza fare il minimo rumore. Quindi devi aver usato la magia. Ho vissuto a lungo a contatto con la magia e ne so riconoscere il suono, anzi il non-suono. Sai cosa credo? Credo che tu abbia approfittato della confusione per scappare da un qualche tempio. Vuoi essere libera, vuoi essere tu a decidere della tua vita. Sbaglio forse?»
La risposta della ragazza fu nient’altro che un sussurro: «No.»
«Ma non vuoi neanche passare da una prigione a un’altra, vero?»
«Se lo sai perché me lo chiedi?» rispose scontrosa.
Val le si avvicinò.
«Perché io sono l’uomo nero. Sono matto. Non te l’hanno detto?» rispose con una risatina sgradevole. «Ti confesserò una cosa, ragazzina. Ascoltami bene, perché sarà la prima e l’ultima volta che la sentirai, questa storia. Mio padre era un boscaiolo. Vivevamo all’interno dei domini del Conte Axel e oltre a mantenere pulita la foresta, ci occupavamo anche di controllare che non ci fossero cacciatori di frodo. Un giorno, durante un inverno particolarmente rigido, io avevo cinque anni, mentre stavamo facendo un giro di controllo fummo attaccati alle spalle. Cacciatori, probabilmente. Lui fu ucciso e io caddi sbattendo la testa. Sarei morto di freddo se qualcuno non mi avesse soccorso. Qualcuno, bada bene, che mi raccolse e mi portò a casa da mia madre. Rimasi incosciente per quasi due giorni e quando mi svegliai ero cieco. Naturalmente non potevamo rimanere nella casa del conte dopo la morte di mio padre, così partimmo per la città. Mia madre trovò lavoro presso una sarta, ma lavorava troppo e guadagnava poco. Io non potevo aiutarla in niente e nel giro di pochi mesi anche lei si ammalò e morì. No, non singhiozzare. Sai quante storie come la mia ci sono ogni giorno nel mondo? Infinite; non sono il primo bimbo che rimane orfano in circostanze tragiche e non sarò certo l’ultimo. Per farla breve, la vita in città non era affatto semplice: vivevo di elemosine, furti, qualche lavoretto infimo dove ricevevo più botte che soldi. Fino a che non decisi di scappare. Chiesi e chiesi e chiesi e alla fine trovai qualcuno che passava vicino al bosco dove avevo vissuto con i miei genitori. Era un mercante ambulante che vendeva non so quale intruglio per il mal di pancia, o forse i calli… non ricordo bene. Mi prese a bordo del suo carro e mi diede anche da mangiare, pane e formaggio. Solo che alla fine della giornata, quando ci fermammo per la notte, abusò di me e il mattino dopo se ne andò lasciandomi da solo e ferito sul limitare del bosco. Per mia fortuna, o più probabilmente per l’intervento di qualcuno dei vostri dei, fui di nuovo soccorso dalla stessa anima generosa che mi aveva aiutato un paio d’anni prima. Mi prese con sé e mi fece da padre e da madre. Non parlava, non ne era capace, ma io riuscivo lo stesso a percepire i suoi sentimenti. Era un Greubywyd fuggito dal ghetto. Vissi con lei nel bosco per quattro o cinque anni, imparando a sopravvivere quasi in autonomia. Poi dovemmo andarcene. La guerra si era inasprita e altri avevano bisogno di lei. Ce ne andammo al nord per lunghi anni, durante i quali sono diventato ciò che sono adesso. Sono tornato due anni fa e mi sono costruito una capanna nei boschi, a malapena tollerato dal proprietario. Ogni tanto andavo in città a vendere i miei cesti, ma mi sono accorto presto che poco era cambiato da quando ero bambino e ho preferito continuare a vivere da eremita, con la sola compagnia del mio cane. Prima che anche lui venisse ucciso.» Fece una pausa, forse aspettandosi che la ragazza replicasse qualcosa, ma lei non disse nulla. «Io capisco la tua voglia di libertà e di indipendenza, e posso proteggerti. Pensaci.»

11.
“Finalmente siamo arrivati alla meta.”
Il bosco che avevano attraversato in quei giorni era ai loro piedi. La costruzione diroccata che avevano raggiunto avrebbe permesso loro di difendersi, o almeno così credeva Cecil.
«Fabbro, come vi sentite?»
«Oh, curatrice, le vostre cure mi hanno letteralmente rimesso al mondo. Ormai non ho che graffi, anche se il fianco mi fa ancora male.»
«Ci vorrà del tempo, ma guarirete. Non siete ancora spacciato mio caro amico.»
La ragazza sorrise affabile e Ethan ne rimase sconcertato.
Erano in viaggio da settimane; settimane passate a camminare nei boschi per proteggersi dai Greubywyd. Nel frattempo sua sorella si era presa scrupolosamente cura di quell'uomo.
«Fabbro, che genere di aiuto pensano di dare i vostri familiari ai nostri soldati?» chiese Ethan all'improvviso.
Cecil fissò il fratello come se fosse un fantasma.
«Ma sei scemo? Secondo te in guerra a cosa mai possono servire dei fabbri? A fabbricare scodelle o scope di ferro?»
Il Fabbro rise sonoramente e Ethan si sentì sprofondare. Era vero, aveva fatto una domanda stupida, ma era convinto che in guerra non vi fosse il tempo di forgiare armi. Vivere per anni nel tempio di sua sorella non aveva certo giovato alla sua esperienza militare.
«Scusatemi Ethan, non volevo ridere di voi. Siete giovane e si vede, ma non avete tutti i torti a fare queste domande. La mia famiglia contava tre fabbri e due alchimisti, non so però se mio fratello e sua moglie ce l’abbiano fatta a lasciare la città. Lavoravamo per l’esercito, forgiando le punte per le lance e, in rare occasioni, anche le spade corte per i fanti. Svolgere il mestiere di fabbro con due alchimisti al seguito era molto più facile» rise ancora strizzando l’occhio al ragazzo. «Ora posso solo riparare qualche ferro di cavallo e qualche marmitta, ma immagino che qui a Hores ci siano anche delle vecchie fucine dove riprendere l’attività.»
«Era?» Cecil non aveva quasi ascoltato il resto de discorso e fissò attentamente il Fabbro. Conosceva gli alchimisti, sapeva cosa erano in grado di fare unendo gli elementi: piante che crescevano a dismisura, pietre che erano in grado di operare magie mirabolanti. Erano addirittura capaci di infondere la vita.
«Sì, era. Prima che decidessero di lavorare per il re. Sembrava che improvvisamente tutti gli alchimisti del paese si stessero radunando in città a soldo del sovrano; ci hanno lasciati da un giorno all’altro.»
Cecil rimase silenziosa e insieme al gemello iniziò a montare il campo.
«Cecil, vorrei chiederti alcune cose» disse Ethan di punto in bianco, mentre lei gli passava un picchetto.
«Dimmi.»
«Tu credi che Tali possa avere qualche... potere magico?»
«Non ne ho idea.»
«Ma non ti è stato insegnato come riconoscere la magia?»
«No, direi di no. I sacerdoti e le sacerdotesse sono in grado di usare la magia a certi livelli, ma neppure loro riescono a riconoscerla negli altri.»
«E perché?» Cecil fissò il fratello: mai le aveva fatto domande sul suo apprendistato.
«Beh, perché… perché no… cioè… non so come spiegartelo ma...»
«E che poteri sono?»
«Dipende. Ogni bambina deve superare l'apprendistato, se poi viene ritenuta idonea segue un percorso per stimolare le sue capacità. In poche parole le viene insegnato come utilizzare la sua energia al servizio di uno dei quattro elementi. L’acqua, essendo alla base della vita, è quello che ha più forza.»
«E come si capisce se uno possiede questo potere?»
«Ethan che hai visto? Sembra che tu mi stia sottoponendo a un interrogatorio e magari se mi dici che problema hai potrò risponderti senza sembrare una maestrina.»
Ethan le raccontò imbarazzato ciò che aveva visto al torrente qualche giorno prima e quello che Talitha le aveva detto circa il suo passato.
«Sai, credo mi abbia mentito o almeno questo è quello che ho percepito! Ma era una confidenza e... ah non avrei dovuto dirtelo!»
«Mmm…» fu l'unica risposta che ricevette dalla sorella. Cecil continuò a riflettere e a montare il campo come se il fratello le avesse posto una domanda esistenziale.
Le cose su cui riflettere erano tante: la giovane che emetteva strane ondate di calore, gli alchimisti, le bestie che sembrava sapessero dove stavano andando.
Oramai avevano raggiunto la loro destinazione e lei aveva la possibilità di trovare più facilmente chi potesse darle delle risposte. Mentre aspettava di poter entrare nella fortezza, cominciò a cercare un sacerdote dalla veste verde di grado elevato. Per sua fortuna lo trovò quasi subito. Ethan era costretto a muoversi assieme alla gemella e purtroppo per quel giorno aveva mancato di incrociare Tali.
«Buongiorno» Cecil si portò una mano al cuore in segno di rispetto verso quello che a Ethan parve un vecchio con un piede nella fossa.
«Salve. Spero non abbiate dei feriti da sottopormi, come potete bene vedere sono vecchio, troppo vecchio per questo genere di cose.»
«No, nessun ferito. Vi chiedo udienza per un consiglio.»
«Oh, certamente allora. Io sono Allumin, sacerdote di Izaera e voi?»
«Mi chiamo Cecil Amber, sono figlia del colonnello Amber.»
«Forza allora figlia del colonnello, di che consiglio avete bisogno?»
«Ehm» la giovane si schiarì la gola e si sedette accanto al vecchio, su un masso parzialmente seppellito. «Ecco volevo chiedervi... la scienza alchemica è solo votata alla creazione, o anche alla distruzione?»
Dalla faccia del vecchio scomparve il sorriso sdentato, sostituito da un’espressione stupita. «Ecco una domanda che non mi aspettavo da una ragazzina così carina e apparentemente innocente.»
«Già, lo immagino. Ma ho bisogno di sapere se gli alchimisti… che relazione c’è tra gli alchimisti e i sacerdoti?» L'uomo rimase silenzioso. Sembrò soppesarla. «Ho studiato presso il tempio del dio Otter» continuò Cecil, più sicura. «So che ci sono delle leggende, che risalgono al periodo in cui i Greubywyd sarebbero stati creati, ma erano solo storie raccontate fra novizi, nessuno le hai mai prese troppo sul serio.»
“Io vado a farmi un giro, non so se voglio sentire la risposta” pensò Ethan alzando gli occhi al cielo. “Non allontanarti” gli rispose Cecil nella testa.“Come se potessi...”
Il vecchio si raschiò la gola prima di parlare. «Quindi vuoi conoscere la storia della creazione dei Greubywyd?»
«Quella la conosco già» lo interruppe Cecil. «So che sono stati creati dagli alchimisti e…»
«Per la verità» la interruppe a sua volta il vecchio «gli alchimisti furono quelli che diedero loro la vita. Chi li creò in partenza… beh, questo non si sa.»
«Quindi come avevano dato loro la vita potevano anche togliergliela. È per questo che il re li reclutò tutti quanti prima che cominciasse la guerra vera e propria? Per uccidere tutti i Greubywyd?»
«Io immagino che questa fosse la sua ultima carta» rispose il vecchio allargando stancamente le braccia. «Ma la tua domanda, se non sbaglio, era un’altra.»
Cecil rimase in attesa.
«Non vi è motivo per non raccontarti la storia, anzi, questa conversazione è molto rilassante, ti ringrazio» disse accomodandosi meglio e passandosi la mano sulla barba rada. «Non esistono documenti, ma diversi anni fa alcuni sacerdoti del nostro ordine furono chiamati dal re per andare nelle Cave del Nord. Come ben sai quelle cave sono inutilizzate da secoli, svuotate di tutto quello che potevano dare al nostro popolo. Sembra che alcuni di quei sacerdoti siano tornati parlando di esperimenti blasfemi, riti eretici e uomini eletti a dèi. All’epoca non ero che un novizio, quindi non potei verificare di persona se si trattasse di storie inventate o di verità. Quello che è certo è che nelle cave gli alchimisti stavano conducendo esperimenti sui Greubywyd, per renderli più forti forse, o più intelligenti. Qualcuno doveva aver suggerito al re di allora che sarebbe servita la benedizione della natura, altrimenti gli esperimenti sarebbero tutti falliti. Perciò egli elargì una lauta offerta al tempio e alcuni dei confratelli e consorelle più anziani partirono.»
«E poi?» chiese Cecil ansiosa quando il sacerdote non proseguì.
«E poi nulla» disse questi con una risata. «Gli esperimenti fallirono lo stesso, o almeno questo è quello che fu riferito.»
Cecil rimase silenziosa per un po’. «Quindi c’è stato un tempo in cui voi sacerdoti siete venuti a contatto con i Greubywyd.»
L’anziano sacerdote la guardò in tralice, ma prima che potesse dire qualcosa Cecil lo prevenne:
«Ho un'altra domanda. Come si identifica una sacerdotessa priva degli ornamenti sacerdotali?»
«Oh… non saprei» rispose prontamente l’altro, lieto di cambiare argomento. «Direi dai suoi poteri. Ma perché diamine una sacerdotessa dovrebbe nascondersi?»
«Bella domanda! E come potrei riconoscere i suoi poteri nel caso che questa persona li tenesse segreti?»
«Non potresti. A meno che non vi siano segni visibili.»
“Gli occhi!”
«Tipo... occhi dal colore diverso?»
«Sì quello solitamente è un segno di donne particolarmente dotate, negli uomini il potere è molto sopito e non lascia segni evidenti sul corpo.»
«Grazie Allumin, mi siete stato di grande aiuto.»

Era fuggita come una lepre, stava correndo senza pensare tra le persone accampate quando all'improvviso sentì un dolore lancinante allo stomaco. La sua corsa si interruppe bruscamente e cadde pesantemente a terra. Una forza invisibile iniziò a trascinarla verso la tenda di Allumin, e nel farlo portava con sé tutto ciò che incontrava sulla sua traiettoria. Infine una botta fragorosa le fece sbattere la testa contro quella del gemello.
«Oh dèi che dolore. Che male!»
Entrambi iniziarono a saltellare dal dolore, pieni di graffi ed escoriazioni, ma la scoperta era troppo clamorosa per preoccuparsi di lividi e tagli.
«Ethan! Quella ragazza potrebbe essere una potente sacerdotessa e forse… forse conosce i reietti del ghetto!»
«Ma che dici?»
«Era impossibile che quei mostri riuscissero a seguirci per pura fortuna!»
Ethan fissò la sorella come se davanti a lui ci fosse un folletto indemoniato!
«Che cosa stai dicendo? Che cavolo c'entrano i reietti del ghetto con Tali? Inoltre se Tali fosse una sacerdotessa me lo direbbe!»
«Siete così intimi?» Cecil lo guardò maliziosamente. «E se lei fosse in fuga da altro e non solo dalla guerra? Se...»
All'improvviso la rivelazione. E se la fragile e giovane Tali fosse stata una sacerdotessa di Izaera?
Se... se anche lei fosse a conoscenza dei segreti degli alchimisti?
Doveva parlarle, ma come? Direttamente senza preamboli oppure facendola arrivare alla confessione lentamente?
«Cecil a che pensi? La tua mente si è chiusa.»
«Già, fratello. Ora perdonami e seguimi senza domande.»
I militari all'interno delle mura si preparavano alla resistenza, ma fuori c'erano ancora i campi dei profughi e i campi per i feriti. Ora che tutta la popolazione si era riunita servivano ancora più cure.
Sperava di trovarla in mezzo agli altri sacerdoti, invece la vide in fila per attingere l’acqua da un pozzo.
«Eccola.»
«Che vuoi da lei? Che vuoi da Tali?»
«Sta' zitto.» Cecil era decisa. Decisa più che mai a scoprire tutta la verità. Partì alla volta della giovane donna.
«Ciao, Tali.»
La ragazza la guardò stupita. Da sotto il cappuccio sbucava qualche ciocca rossa come il fuoco e i suoi occhi... Cecil sorrise soddisfatta.
«Devo parlarti e tu devi rispondere a qualche domandina.»
«Devo?»
«Diciamo che sarei incredibilmente felice se tu lo facessi.» La prese per un braccio e l'allontanò dalle altre persone. Ethan le seguiva a distanza, non le perdeva di vista, ma non aveva voglia che Tali pensasse che in mezzo a quella storia ci fosse anche lui.
«Ho bisogno di una risposta. So che sei una sacerdotessa, o per lo meno hai studiato come tale.»
Sul volto della ragazza Cecil vide il terrore. Tali si mise una mano davanti al volto. «Come.. come…»
«I tuoi occhi. I tuoi occhi dicono tutto e anche quello che mio fratello ha visto è servito a darmi un’idea, ma non è questa la cosa importante. Se tu non vuoi far sapere che sei una sacerdotessa, avrai i tuoi motivi, ma…» strinse ancora di più la presa sul suo braccio «ma devi dirmi quello che sai degli alchimisti e dei Greubywyd! Sei tu che li porti da noi? È per questo che loro ci seguono ovunque è vero? Tu sei stata spedita in una delle Cave e lì li hai conosciuti. Hai scoperto che volevano sterminarli perché ormai sono diventati ingestibili e ti sei messa dalla loro parte!»
Tali la fissò stranita, come si fissa una che è appena uscita di senno, e intanto Cecil sperava con tutto il cuore che la giovane vuotasse il sacco.

12.
Finalmente avevano raggiunto la fortezza.
Si trattava di una costruzione ricavata direttamente dal lato della montagna. Aveva due cerchie di mura distanti qualche migliaio di passi l’una dall’altra; entrambe erano abbastanza alte e perfettamente lisce, con un camminamento ampio una decina di passi. Tra le due erano posizionati i magazzini delle armi, le stalle dei cavalli e dei pochi animali da cortile che erano giunti indenni sino a lì.
Dietro alla seconda cerchia e scavate all’interno della montagna si trovavano, invece, una decina di gallerie molto lunghe che terminavano in ampie sale, alcune naturali altre, poche a dir la verità, artificiali. Era in queste sale che il principe aveva deciso si dovessero rifugiare gli esuli.
Val e Talitha furono tra gli ultimi ad entrare nella fortezza interna dopo essere rimasti in attesa del loro turno per due notti. Per questo motivo si trovarono a prendere posto vicino all’ingresso della sala a cui erano stati assegnati.
Adesso che erano al sicuro dagli attacchi dei mostri alati i profughi cominciavano a considerare seriamente quale potesse essere il loro futuro. Fino a quel momento la priorità era stata salvare la vita, ma adesso anche altre preoccupazioni cominciavano ad affacciarsi alle loro menti: per quanto tempo sarebbero bastate le scorte di viveri, e come si sarebbero procurati la verdura fresca in caso di assedio? L’acqua era l’unica cosa che non li preoccupasse perché una delle grotte terminava proprio su un fiume sotterraneo.

«Se c’è qualcuno che vuoi salutare, fallo adesso, perché non so se poi sarà troppo tardi» disse Val alla ragazza seduta accanto a lui, alla fine della prima giornata dentro al rifugio. Erano rimasti lì per tutto il giorno, immersi ognuno nei propri pensieri. Tali si alzò e si allontanò in silenzio. Anche se non glielo aveva detto chiaramente Val aveva capito che aveva quasi deciso di accettare la sua proposta.
Tornò dopo un’oretta. Aveva gli occhi rossi, ma si sedette senza neppure una parola.
Arrivò l’ora di cena e divisero un pasto freddo a base di frutta e gallette. La priorità era quella di consumare tutti i cibi deperibili prima che andassero a male.
«Tu sei con loro» disse improvvisamente Tali. E non era una domanda la sua, ma un’affermazione. Val non ritenne necessario rispondere.

Era notte. Erano all’interno della fortezza da tre giorni ormai e il momento era arrivato.
Val si alzò silenziosamente dal proprio giaciglio, raccolse il bastone da terra e con la punta toccò leggermente la spalla di Talitha.
“È stata una fortuna averla trovata” pensò. “Mi renderà le cose infinitamente più semplici.”
Sempre senza il minimo rumore si diressero verso l’uscita della grotta. Una volta all’aperto inspirarono a pieni polmoni l’aria fresca e non viziata dalla presenza di centinaia di persone ammassate in uno spazio ristretto, e si appiattirono contro la parete di roccia.

«Il portone è chiuso» sussurrò Tali all’orecchio di Val, «e ci sono due soldati di guardia. Sono alti più o meno quanto te.»
L’uomo aggrottò la fronte per un secondo, poi le disse: «Prendi due sassi abbastanza grandi da fare rumore, ma abbastanza leggeri da poter essere lanciati con facilità.» Tali ubbidì e ne diede uno in mano a Val, mentre tenne l’altro per sé.
Si avvicinarono lentamente e con cautela, attenti a non fare alcun rumore. Una volta giunti vicino ai battenti, Tali strinse leggermente il braccio di Val e questi lanciò il sasso che teneva in mano dietro alle sue spalle. Un rumore sordo fece voltare entrambi i soldati nella loro direzione, ma non li videro: i mantelli neri li avvolgevano completamente e le ombre proiettate dal camminamento li proteggevano. Quando Tali vide uno dei soldati muoversi nella loro direzione, lanciò con forza l’altro sasso dalla parte opposta, attirando l’attenzione della guardia. Val intanto si era concentrato sul suono dei passi del primo soldato e quando questi gli giunse davanti, allungò la mano all’altezza del suo viso, verso la bocca, sperando con tutto se stesso di non sbagliare mira. Mentre con una mano gli impediva di urlare con l’altra gli tagliò la gola con un colpo netto del suo coltello. Sostenne il peso del corpo per qualche secondo poi lo appoggiò contro il muro.
«Vic?» diceva intanto la seconda guardia, senza però alzare la voce. «Vic dove sei?»
«Sono qui, guarda cosa ho trovato» rispose Val, camuffando la voce e prendendo Tali per un braccio ed esponendola alla luce della luna e a quella flebile delle fiaccole appese accanto alla porta. Lei trattenne un singhiozzo terrorizzato, cercando al tempo stesso di divincolarsi, ma ebbe la prontezza di non dire nulla per non attirare l’attenzione delle guardie che facevano la ronda sul camminamento.
“Meno male che il tempo è umido!” si ritrovò a pensare il cieco, rendendosi conto che c’erano un’infinità di incognite che potevano decidere del successo o del fallimento della sua missione.
Il soldato si avvicinò curioso, badando più alla ragazza che all’aspetto del collega e quando Val percepì la sua presenza a pochissimi passi, sfoderò di nuovo il coltello e in un movimento ampio del braccio recise la carotide e la trachea anche alla seconda guardia. Quindi si diresse verso i battenti del portone e quando li trovò vi appoggiò contro tutto il suo peso, scostandoli quel tanto necessario a farli passare.
Cercò la mano della ragazza che lo seguiva come un’ombra e quando la trovò si accorse che era gelida.
«Andiamo.»
Restando sempre accanto al muro si diressero verso la porta principale. Tutt’intorno a loro un silenzio quasi irreale. Val continuava a tenere Tali per un braccio, sperando che lo scambiassero per un soldato che l’accompagnava da qualche parte.
Dopo un paio di minuti arrivarono alla porticina che dava accesso alle scale che portavano alla carrucola tramite la quale era possibile alzare e abbassare le sicure della grande porta rinforzata.
«Tali, riesci a far scoppiare un incendio da questa distanza? Cerca di appiccare il fuoco alle stalle.»
La ragazza chiuse gli occhi e si concentrò su una piccola scintilla che scoccava in mezzo alle balle di paglia ammassate appena fuori dalla porta. Prima un filo di fumo, poi una fiammella tenue e infine fiamme altissime che avvolsero le pareti e il tetto in un batter d’occhio. Val aspettò di sentire le prime grida d’allarme risuonare nella notte, poi ordinò a Tali di salire per prima e distrarre la guardia che si trovava in cima alle scale.
“Sì, decisamente un dono degli dèi” pensò ancora una volta, soddisfatto.
Sentì delle voci provenire dalla stanza sopra la scala e iniziò a salire anche lui cercando di fare meno rumore possibile.
«…mi avevano detto che era qui» sentì che diceva la ragazza.
«No, ti hanno dato un’informazione sbagliata, e comunque come hai fatto ad arrivare fin quassù?» chiese una voce che Val riconobbe immediatamente. Aran!
“Maledizione! Perché proprio lui!” imprecò tra sé.
«L’ho guidata io» disse però, emergendo nella stanza. «Non è stato difficile: è bastato che chiedessi di potermi sostenere al muro a causa della mia infermità quando ci hanno fatti entrare. E così ho potuto memorizzare il percorso.»
«Val? Cosa stai dicendo? Perché siete qui? Cosa significa?» la voce di Aran esprimeva tutto il suo sconcerto.
«Mi dispiace ragazzo. Tu ed Helena siete stati sempre gentili con me, non prenderlo come qualcosa di personale» disse mentre estraeva il coltello dalla cintura e con un balzo fulmineo gli saltava addosso lacerandogli la gola.
«Poveri imbecilli. Nella loro arroganza non hanno neppure mai pensato che qualcuno potesse preferire i Greubywyd a loro.»
Quindi iniziò a girare la ruota per liberare il cancello e far entrare il nemico.

13.
I giorni si susseguivano lenti e Talitha li passava il più lontano possibile da qualsiasi sacerdote. Ormai aveva preso l’abitudine di passare l’ora dei pasti insieme a una famiglia, la cui figlia maggiore, Helena, era un soldato. Ultimamente avevano iniziato a procedere più velocemente, incalzati dal Principe che, in vista della fortezza, non vedeva l’ora di arrivare, come tutti del resto.
Dopo i pasti di metà giornata, passava ad assistere qualche malato e ogni tanto incontrava Ethan per parlare un po’ della situazione, di quando avrebbero raggiunto la fortezza, e di molto altro ancora. Cecil la vedeva più raramente da quando il fabbro aveva recuperato quasi del tutto le forze e, a dir il vero, stare lontano dalla gemella di Ethan, non le dispiaceva poi così tanto.
Una mattina, mentre si accingeva ad andare a curare i malati, Helena le si avvicinò e, preoccupata, le raccontò di un suo amico cieco, Val, che aveva perso da poco l’unica guida e aiuto che aveva, il suo cane. Le chiese se poteva assisterlo e aiutarlo. Talitha accettò volentieri anche solo per spezzare la noia e l’insofferenza che provava per la monotonia quotidiana, e anche perché un cieco non avrebbe di certo potuto scoprirla se anche si fosse tolta il cappuccio ogni tanto o se avesse usato i suoi poteri.
Con il passare dei giorni la compagnia di Val era diventata qualcosa di scontato, stare insieme a lui le dava l’opportunità di tornare ad essere se stessa, di poter usare i suoi poteri senza dover sempre mascherare ciò che faceva, inoltre lui non le faceva domande a cui lei non poteva rispondere. Anzi, lui non parlava proprio. Talitha odiava dover rispondere alla curiosità della gente. Ogni volta che incontrava qualcuno, doveva sempre inventare una menzogna per giustificare il fatto che viaggiasse da sola, che sembrava sempre felice invece che triste come tutti gli altri e molte altre questioni che lei considerava stupide e ripetitive, senza contare che doveva sempre trattenersi dal dare una rispostaccia! Più stava in mezzo alla gente e più si sentiva sola, erano solo un branco di egoisti che, pur di soddisfare i loro bisogni, non si facevano scrupoli a sfruttare tutto e tutti!
I Greubywyd ne erano l’esempio lampante.
Tutti sapevano chi e cosa fossero i Greubywyd ma mai, mai nessuno si era preoccupato della loro sorte. Nessuno si era mai soffermato un attimo a pensare che magari anche loro avevano un’anima, che anche loro avevano dei sentimenti… no, l’unica cosa importante era che tutti i Greubywyd si presentassero nelle miniere, nei campi, nelle botteghe per svolgere un lavoro umiliante e sporco.
Più conosceva il mondo delle persone fuori dal tempio e più la sua decisione prendeva fermezza e forza.
Una sera decise di non tornare a dormire nella tenda di Helena, voleva stare con Val per poter riflettere su come agire una volta raggiunta la meta. Ma a quanto sembrava Val non era di quell’avviso, quella sera era in vena di confidenze. Quando iniziò a domandarle quanti anni aveva, Tali si disse che anche su di lui la curiosità aveva avuto il sopravvento, però quello che venne dopo la lasciò completamente di sasso. A momenti si strozzava con la cena! Le aveva proposto di seguirlo. Si conoscevano da poco più di una settimana e avrebbe dovuto decidere se dividere con lui la sua vita.
Stava per domandargli se per caso non fosse impazzito ma si bloccò quando lui le disse che aveva scoperto che in lei albergava della magia e che si era accorto che cercava di nasconderla.
Man mano che Val le raccontava la sua storia, Talitha, iniziò a pensare di aver finalmente incontrato qualcuno di simile a lei, qualcuno che potesse capirla. Qualcuno che lottava per la libertà e l’indipendenza, come lei. Inoltre le offriva protezione per il futuro e... magari l’avrebbe anche fatta dormire al posto del suo cane morto, se fosse stata fortunata.
Voleva mandarlo quasi al diavolo quando un pensiero, un sospetto, iniziò ad insinuarsi in lei. Val non era uno stupido e, se le aveva raccontato il suo passato, non era solo per fare conversazione intorno al fuoco. Non riusciva ancora a capire dove volesse arrivare, ma avrebbe fatto meglio a pensare bene alle sue parole.
Due giorni dopo raggiunsero la fortezza e lei prese a dividere il suo tempo tra la compagnia di Val e l’assistenza ai malati.
Con il passare dei giorni e l’assenza degli attacchi dei Greubywyd, che sembravano essersi definitivamente rassegnati, la gente aveva iniziato a respirare più facilmente. In quel periodo il comportamento di Val, lei cercava di tenerlo sempre d’occhio, diede conferma ai suoi dubbi: con quel suo discorso, lui voleva dirle molto più di quanto lei avesse inizialmente inteso. Cominciò ad averne paura, ma si costrinse a rimanere con lui perché in fondo voleva sapere, voleva vedere se ci aveva visto giusto e… e forse non solo per quello. Forse intuiva che l’uomo non si sarebbe limitato a pensarla in modo diverso dal resto della popolazione, ma che avrebbe anche avuto il coraggio di agire.
Un pomeriggio Val le disse che, se voleva salutare qualcuno, quello era il momento giusto per farlo. La ragazza capì di non essersi sbagliata: c’era qualcosa in ballo, qualcosa che nessuno di loro poteva immaginare.
Non sapeva che fare, era dilaniata dal conflitto interiore. Voleva andare da Ethan per parlare con lui ma non sapeva se Val avrebbe approvato. Non sapeva neanche lei che cosa provasse per il ragazzo, non sapeva come definirlo non avendo mai avuto termini di paragone con qualcun altro. Talitha era vissuta al tempio circondata dall’indifferenza: le altre novizie, sapendo di essere meno dotate e di non poter aspirare al titolo di Gran Sacerdotessa la tenevano a distanza, in un misto di invidia e reverenza. Aveva trascorso la maggior parte del suo tempo in compagnia della vecchia Gran Sacerdotessa, isolata dalle altre persone e impegnata nell’apprendimento di quelle regole non scritte che avrebbero fatto di lei un capo. Era stato durante quelle infinite lezioni che aveva appreso la storia dei Greubywyd, del “miracolo” compiuto dagli alchimisti nel dar loro la vita e dell’alleanza tra questi ultimi e i sacerdoti. Ed era stato così che si era resa conto, una volta di più, quanto simili fossero in realtà lei e quegli esseri: nessuno di loro aveva la libertà di potersi comportare secondo il proprio istinto. Le loro vite erano regolate da altri, senza che avessero possibilità di scelta. Schiavi entrambi, loro di padroni, lei della cura di un culto e delle responsabilità che ne derivavano.
Mentre cercava di prendere una decisione, vide due consorelle del tempio andare nella sua direzione e per evitarle si inserì nella lunga fila per attingere l’acqua al pozzo, come una ragazza comune. Avrebbe voluto andare dai malati, ma c’erano troppi sacerdoti lì attorno e troppo alto era il rischio di essere riconosciuta. Era ancora in fila quando vide passare di corsa Ethan e Cecil, ma non ci diede peso finché, poco dopo, li vide tornare guardandosi intorno nell’evidente ricerca di qualcuno. Lei, capì quando Cecil le si avvicinò sicura dopo averla scorta in mezzo agli altri. La gemella di Ethan era ancora più brusca del solito e, dopo averle detto che doveva parlarle, le aveva anche ordinato di rispondere.
«Devo?» chiese Talitha guardandola in modo scettico.
Cecil la prese per un braccio e la trascinò in un posto appartato. Senza allentare la stretta iniziò a dirle che lei sapeva che era una sacerdotessa, che Ethan le aveva detto di averla vista praticare magia, che le aveva raccontato la confidenza sul suo passato e che voleva sapere dei Greubywyd.
Talitha impallidì e guardò Ethan come se l’avesse tradita, come se l’avesse pugnalata alle spalle, subito dopo la sua espressione si fece dura e lo guardò con risentimento. Anche lui era uguale a tutti gli altri.
“E io che stupidamente mi fidavo di lui e volevo raccontargli di Val, che stupida!” pensò amareggiata.
Si girò verso Cecil, si liberò con uno strattone dalla sua presa e le rispose nel modo più astioso che poteva: «I Greubywyd? Che cosa vuoi sapere? Se sono dei mostri? I veri mostri sono quelli che camminano alla luce del sole, non loro!» tacque per un momento per impedirsi di dire altro, poi continuò rivolta verso Ethan. «Così mi hai visto quel giorno al torrente, eh? Non hai detto nulla a me ma non vedevi l’ora di andarlo a dire a tua sorella, vero? E io stupida che credevo finalmente di aver trovato qualcuno con cui confidarmi! Sei… tu, loro… non c’è differenza tra di voi! Pensate tutti di essere superiori e non vi importa nulla degli altri!»
«Tali…» iniziò Ethan.
La ragazza non lo lasciò finire e gli urlò: «Non mi parlare, non… chiamarmi! Mi hai fatto male. Tu… sei riuscito a fare ciò che non erano mai riusciti al tempio di Izaera. Io iniziavo a fidarmi di te! Perché sei andato da lei? Dovevi venire da me e non da lei se volevi delle spiegazioni! Ti odio!» Si voltò e fece per andarsene ma si fermò e aggiunse: «Non chiamarmi Tali, io non ho nessun amico, tu… per te io sono morta!» e corse via in lacrime.
Quando tornò da Val, si sedette accanto a lui e non disse nulla. Ora sapeva che fare e sapeva da che parte stare.
«Tu sei con loro!» disse con convinzione, sapeva che era così, lo aveva capito ormai. Sarebbe andata con lui, ormai non aveva più niente che la legasse a quel popolo! Cinque anni prima i germogli di una decisione erano cominciati a sbocciare dentro di lei e ora era arrivato il momento di agire. Chiese all’uomo di spiegarle il suo piano nei dettagli.
Durante la notte Val la svegliò e, insieme, si avviarono verso le porte della fortezza. Val uccise una delle sentinelle della prima porta con una freddezza tale che la lasciò gelata sul posto. Lo fissò come se fosse pazzo e si divincolò dalla sua stretta per manifestare il suo disappunto ma poi si ricordò i motivi per cui aveva accettato di seguirlo. Era ancora combattuta ma decise che doveva andare avanti se volevano riuscire nell’impresa. Uscirono dalla prima cerchia e si avvicinarono all’entrata della stanza degli ingranaggi che proteggevano la porta esterna. Appena prima di entrare Val le sussurrò di appiccare un incendio alle stalle per creare un diversivo. Sospirando la ragazza chiuse gli occhi e si ripeté che non era quello il momento per provare dei dubbi, si diede mentalmente della stupida e agì. Fece scaturire una scintilla dalla mano e appiccò il fuoco. Sperò che almeno gli animali potessero salvarsi, non era giusto che anche loro pagassero per quella follia. Il fuoco, com’era da immaginarsi, creò confusione e smarrimento tra i soldati. Loro ne approfittarono per raggiungere indisturbati la loro meta. Arrivati alla scala che portava alla carrucola, Talitha salì per distrarre la guardia mentre Val rimaneva dabbasso. Stupita, si trovò davanti Aran, il fidanzato di Helena.
«Tali, che ci fai qui? Come ci sei arrivata?» le chiese meravigliato.
«Io… non sapevo che fossi di guardia tu… io stavo cercando il capitano, mi avevano detto che era qui.» Il cuore sembrava volesse scoppiarle nel petto tanto correva veloce.
Val intervenne, lei chiuse gli occhi: il loro piano era saltato. Stava per dire a Val che era meglio tornare indietro, quando all’improvviso lui si gettò sul ragazzo e gli tagliò la gola.
«No!» urlò Talitha precipitandosi verso Aran e cercando di tamponargli la ferita. «Perché lo hai fatto? Potevamo mandarlo via con una scusa, almeno avrebbe avuto una possibilità di salvezza!» gridò, ma Val non la stava ascoltando.
«Poveri imbecilli. Nella loro arroganza non hanno neppure mai pensato che qualcuno potesse preferire i Greubywyd a loro» lo sentì dire mentre i cancelli si aprivano. Alzando gli occhi al cielo, Talitha vide una nuvola nera oscurare le stelle: i Greubywyd stavano arrivando.
Guardandosi le mani intrise del sangue di Aran, qualcosa si spezzò dentro di lei e si rese conto che era troppo tardi per tornare indietro… non era questo il modo in cui lei avrebbe voluto che tutto finisse. Ora si sentiva del tutto uguale ai Greubywyd e capiva quanto la linea di confine tra vittima e carnefice fosse sottile. Gli occhi le si riempirono di lacrime e immobile, sotto shock, prese a fissare il buio della notte mentre le grida di terrore della gente già la raggiungevano. L’unica cosa che riuscì a dire in un sussurrò fu: «Scusami, ora sono davvero morta per te…»
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LA SOTTILE DISTANZA (dal capitolo 15 a fine racconto)

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 21:01

15
DAL DIARIO DI VIAGGIO DEL PRINCIPE AVERON DEI NOIADOCHAS, A.C. 215, MESE DEL TASSO, SETTIMO GIORNO.

Siamo arrivati. Non ci avevo mai creduto davvero, ma siamo arrivati. Ora posso ammettere tutto, ora che le persone sono state sistemate e le difese preparate posso ammettere le mie debolezze, i numerosi timori che hanno afflitto le mie fioche e traballanti speranze nelle ultime settimane.
Ci sono voluti quasi tre giorni per far entrare tutti i civili, se ancora così si possono chiamare, nelle mura interne. Abbiamo deciso di farli accampare nelle cave, tutti quanti, le famiglie con pochi uomini in forze più in profondità delle altre.
Conto, in futuro, di cambiare questa situazione: non possono vivere come agnelli per il resto della loro vita. Quando saremo certi di aver debellato la minaccia dei Greubywyd a tutti verrà assegnato un posto, nel fortino o nella cittadella esterna, a seconda delle loro propensioni e capacità. Ci ricostruiremo una vita e una dignità.
L'acqua non manca. I fiumi sotterranei scorrono placidi ma costanti. E gli animali e i semi che abbiamo portato con noi di certo si moltiplicheranno e ci daranno sostentamento.
Ho dato ordine di perlustrare le cave alla ricerca di giacimenti minerari ancora sfruttabili. La fortezza, per la verità, è antica e non di certo sprovvista di ferraglia, lasciata qui anni e anni fa da chi ora non c'è più. Ferraglia che, mi assicurano i fabbri, è in gran parte recuperabile e che dovremo farci bastare nei prossimi mesi. Ma quando la minaccia sarà lontana, conterò sulle cave per darci il ferro e, perché no, l'oro.
Ho fatto portare qui un vecchio piedistallo, trovato ancora integro nell'armeria privata del fortino, e ora la spada di mio padre riposa adagiata sul vecchio legno. Non vorrei, ma già so che presto la polvere la ricoprirà; dovrei fare in modo che venisse costantemente pulita, ma non voglio che una serva vi metta le mani sopra.

Airo è appena stato qui per riferirmi che la popolazione si sta preparando per la notte. È un bene che facciano così, che mantengano l'abitudine di fare tutto nello stesso modo e alla stessa ora del giorno: sarà più facile governarli nei primi momenti, soprattutto se dovessimo essere attaccati. Ho dato disposizione perché le scorte di frecce vengano messe al sicuro e abbiamo messo gli armaioli, quei pochi di cui disponiamo, al lavoro su due vecchie baliste trovate parzialmente integre sui bastioni esterni.
Di certo i Greubywyd attaccheranno dall'alto, sperando di mandarci nel panico. È fondamentale che le chiuse sui cancelli reggano mentre i soldati saranno occupati con le bestie alate. I fabbri e i genieri sono al lavoro fin dal primo giorno per rinforzare le porte e impedire che cedano troppo presto, se succedesse sarebbe una disfatta.

Sono passate alcune ore, è notte inoltrata e non so se quello che sto per fare sia giusto. Questo diario è nato per rispondere a una sciocca paura: temevo che, se non avessi riportato su queste pagine i fatti della mia vita dopo la caduta, nessuno mai si sarebbe ricordato di Averon dei Noiadochas, e che dopo la mia scomparsa di me non sarebbe rimasta che polvere. Ora però mi rendo conto di qual è il vero motivo per cui ho sempre tenuto con me questo piccolo libro dalle pagine bianche... io voglio che il segreto sia tramandato.
Abbiamo sbagliato certo, qualcosa è andato storto, i Greubywyd sono stati un fallimento. Abbiamo permesso loro di crescere, di evolversi... di cominciare a pensare esattamente come facciamo noi. Volevamo che loro fossero uguali a noi ma servili, più forti di noi ma sottomessi. E quando abbiamo compreso l’errore, abbiamo cercato di distruggerli. La prossima volta non ci saranno sbagli. La prossima volta l'esperimento avrà successo.
Annoterò qui le conoscenze che mi sono state tramandate. Nel caso dovesse succedermi qualcosa il sapere non andrà perduto. So che è giusto, lo deve essere! Il sapere viene prima di tutto, il sapere che ci ha permesso di diventare qualcosa di diverso dagli animali, che ci ha permesso di sottomettere gli altri esseri viventi al nostro volere. Quel sapere non può essere dimenticato.

16.
«Tali... Tali!»
Il suo grido rimase assolutamente inascoltato e Ethan si voltò con lo sguardo smarrito verso Cecil che era immobile accanto a lui.
«Mi dispiace, Ethan.»
«Cosa? Ti dispiace? Non è vero, non te ne importa niente! A te non te ne è mai importato niente di me!» stava piangendo. «Io... io ho sacrificato anni della mia vita per te! Ti ho seguito nel tempio, ho ascoltato inutili lezioni sulla geografia e la storia, mentre tu giocavi al piccolo cerusico. Ti ho sempre protetta nelle tue malefatte, ti ho sempre seguito nelle tue follie e anche in questa. Sai Cecil, credo tu abbia ragione: sono uno stupido. Ho continuato a credere che ci fosse qualcosa di più dell’arroganza e dell’egoismo in te. Ma mi sbagliavo.»
«Ethan tu ti offendi troppo facilmente» ribatté Cecil, con il solito tono sbrigativo e lo lasciò così, senza aggiungere altro. Era ovvio che a lei interessava il suo benessere, era suo fratello! Per di più gemello e legato a lei da qualcosa che andava oltre il sangue. Era davvero stupido se non lo capiva da solo e di certo lei non sarebbe stata lì a spiegargli cose tanto ovvie.
Quello che voleva sapere l'aveva ottenuto: i Greubywyd si erano ribellati allo sterminio e qualcuno li stava aiutando. “È colpa nostra?” si chiese. “Ce lo siamo cercati? Probabile, ma da quando non esistono padroni e sottomessi? Il mondo si basa da sempre sul concetto di comandare ed essere comandati.” Il primo re aveva ritenuto che andassero creati esseri atti ai lavori pesanti. E i Greubywyd erano a dir poco perfetti. Perché non avrebbero dovuto sfruttarli?
Si sedette su un muretto da cui godeva della vista della prima cinta di mura. Mezzo distrutto dalle guerre degli antenati quel posto le sembrava più un mausoleo che una fortezza.
“Alcuni tra loro sono anche in grado di volare. Volare e trasportare pesi enormi. Chi se non loro può fare i lavori nelle cave? Chi se non loro è atto al trasporto del legname? La verità è che noi abbiamo bisogno di loro, ma a loro non importa un accidente di noi.”

La notte stava calando. Oramai quasi tutti erano al riparo nelle gallerie, alle donne a ai bambini erano stati assegnati i posti più interni e scavati nella montagna.
Cecil non era ancora tornata. Sentiva che era nei dintorni, ma la voglia di vederla era davvero poca e di sicuro lui non l'avrebbe cercata.
Si appisolò avvolto in un mucchio di coperte puzzolenti e dopo poco la sentì arrivare. Silenziosamente gli si mise accanto e dopo poco il suo respiro era quello regolare del sonno.

Le grida e l'odore acre del fumo li svegliò di soprassalto.
Cecil fissò il fratello e negli occhi vi vide la sua stessa espressione: paura. Il loro riparo era quasi all'imboccatura della galleria e in breve furono all'esterno.
I Greubywyd attaccavano raramente di notte, quindi che stava succedendo? Uscirono e le stalle erano in fiamme. Fiamme che si propagavano velocemente e raggiunsero quasi subito i capanni per le armi. I volontari e le guardie armate stavano tentando di domare il fuoco e nel cielo si andavano a delineare le ombre scure dei loro nemici.
«Che succede? Che succede?»
«Qualcuno ha appiccato un incendio e poi ha ucciso le guardie.»
«Cecil, anche l’armeria sta prendendo fuoco. Non ti pare...»
«Una fortunata coincidenza?»
«Sì.»
«Beh coincidenza o meno, quei mostri maledetti stanno per piombarci addosso.»
«E noi siamo intrappolati qui dentro come conigli in gabbia.»
Poi i mostri attaccarono.
«Sono tantissimi! Sono troppi!»
Cecil vide un uomo venire intrappolato in quegli artigli maledetti e venire sventrato. Rimase a fissare la scena con gli occhi sbarrati e per poco non vomitò.
Ethan la prese per un braccio e la trascinò al riparo di un muretto scheggiato.
«Guardali. Mirano alle guardie. I Greubywyd sono notoriamente stupidi... come, come possono riconoscere gli uomini armati?»
«Non lo so...»
La guardia inseguita dal mostro si voltò e scoccò una freccia che lo centrò in pieno. L'uccello stramazzò a terra e morì soffocato nel suo stesso sangue.
«I bambini!»
Ethan fissò la sorella. «Cosa?»
«Guarda! Ti ho detto di guardare! Stanno... attaccando le prese d'aria! Le prese d'aria! Vogliono sfondare la pietra, uccideranno i bambini! Ci sono i bambini in fondo alle sale.»
«Ethan andiamo!»
«Andiamo? Ma che significa, che vuoi fare?»
Non ebbe nessuna risposta, ma Ethan seguì lo stesso la sorella fino all'edificio tozzo e rozzo che costituiva il maniero. Era l'edificio più interno, ma dall'alto tutto era ugualmente vulnerabile.
«Ethan» Cecil lo stava fissando con una luce febbrile negli occhi, ma anche con una tristezza infinita. Sopra di loro i versi disumani dei Greubywyd. «Io... io ho capito una cosa. Non vi sono persone migliori di altre, vi sono solo tante vite diverse. Ma noi… insieme siamo un'unica cosa. Io non sono migliore di te perché semplicemente faccio parte di te. Sono la tua parte peggiore probabilmente, ma siamo la stessa cosa. Abbiamo sempre creduto che nostra madre ci avesse fatto un torto» sentirono un rumore agghiacciante di artigli contro la pietra e grida di bambini e di donne provenire dall’ingresso di una grotta lì vicino. «Ma se non fosse così? Se ci avesse fatto un dono?»
«Che vuoi dire?» Ethan non riusciva a capire dove sua sorella volesse arrivare, e in quel frangente poi.
Cecil iniziò a piangere e Ethan ne fu sorpreso. Non l'aveva mai vista così e mai l'aveva sentita parlare in quel modo.
«Credo che i Greubywyd siano attratti dalla luce. Ecco il perché dell'incendio. Non sarebbe bastato uccidere le guardie, serviva la luce. E ora attaccano le prese d'aria, gli unici spiragli da cui si vedono i falò e da cui si possono raggiungere le profondità delle gallerie. Prendi una fiaccola!»
Ethan eseguì e rubò una fiaccola abbandonata accesa lì vicino.
Corsero a perdifiato fino alle pendici della montagna dove le gallerie sparivano. Evitarono i Greubywyd e raggiunsero delle vecchie baracche, probabili resti degli alloggi dei lavoranti.
Cecil esortò il fratello ad aiutarla ad appiccare un incendio. Esattamente come quello acceso nelle stalle e che stava ancora bruciando come se alimentato da un fuoco sovrumano.
Ci volle qualche minuto, ma poi le fiamme divamparono. Bruciarono le assi di legno delle capanne, divorarono i resti di ciò che il passato aveva lasciato e le grida dei Greubywyd li raggiunsero.
«Oh Ethan. Tu per me sei stato tutto. Sei stato molto più di quanto pensi.»
La vide sorridere e poi correre come una pazza verso destra. «Ethan corri! Corri!»
E finalmente capì. Un sostanzioso gruppo di mostri si stava dirigendo verso l'incendio che avevano creato e per ucciderli avevano un solo modo: correre.
Dopo pochi passi di corsa iniziò a sentire il dolore allo stomaco. Ma il giovane non si arrese. Questa volta avrebbe insistito e non si sarebbe abbandonato alla maledizione. Corse a perdifiato fino a che sentì il dolore propagarsi ovunque.
“È un peccato non averti salutato,Tali.” sorrise mentre il “dono” lo straziava e le gambe si fermavano.

L'anima le si stava lacerando, Ethan, la sua parte migliore, se ne stava andando da lei. Sperava con tutta sé stessa che i libri che aveva studiato al tempio avessero ragione. Sperava con tutto il suo cuore che la distruzione delle loro anime funzionasse.
E funzionò. Sentì come uno strappo che le fece mancare il fiato e prima di cadere a terra priva di vita sentì una deflagrazione terribile. E un unico pensiero le attraversò la mente: non aveva salutato il Fabbro. “È un peccato non averti salutato, Lasher.”
Nel punto esatto in cui si erano separati e dove si erano radunati parecchi Greubywyd ora non vi era che una voragine e gli scheletri degli schiavi ribelli.

17.
Silenzio.
Fuori non si sentiva più niente.
Ako aprì gli occhi per la prima volta da quando il papà gli aveva detto di stare lì e di tenerli chiusi, e di premersi le mani sulle orecchie.
Un improvviso raspare lo fece trasalire. Pensò subito che i mostri fossero tornati e cercò di rintanarsi ancora più a fondo nel suo nascondiglio, costituito da una vecchia scrivania con una gamba rotta che, ma lui questo non lo sapeva, aveva rischiato di schiacciarlo quando era stata oppressa dal peso di uno di quei cosi alati che erano entrati nel fortino e avevano assalito papà e le altre guardie del principe.
A lui il principe non era mai stato simpatico, ma papà diceva che bisognava difenderlo perché lui a sua volta proteggeva tutti loro. Ako non aveva mai capito questa cosa, ma quando papà la diceva faceva sempre di sì con la testa per paura che lo sgridasse.
Il raspare non si era più fatto sentire. Ako mise la testa fuori dal nascondiglio e guardò verso la finestra distrutta che, si ricordava, dava sulle mura interne della fortezza.
Era giorno, ma non sapeva che ore fossero; di solito lo chiedeva a papà, ma qualcosa gli diceva che questa mattina non avrebbe potuto chiederglielo, perché papà non c'era. Chissà perché ma non gli veniva da piangere. Papà diceva sempre che quando avesse smesso di piangere sarebbe diventato un uomo. Quindi era diventato un uomo? Era per questo che papà non c'era più? Perché lui adesso era un uomo?
Si decise a strisciare fuori e ad alzarsi in piedi. Lasciò una piccola scia di sangue quando le sue mani tagliate raschiarono la roccia impolverata del pavimento, ma lui non se ne accorse.
Gli faceva male il petto, adesso che si era alzato. Ma quel dolore passò presto.
Nella stanza tutto era distrutto: i mobili, i letti, l'armadio grande... tutto. Come se fosse arrivata una tempesta invernale dentro casa.
Uscì nel corridoio che era vuoto. Aveva un po' di paura, ma non tanta. Forse voleva dire che era diventato coraggioso, papà diceva che gli uomini erano coraggiosi, quindi prima aveva capito bene: era diventato un uomo, per quello papà non c'era più.
Ako camminò per il fortino, camminò per un tempo che lui non avrebbe potuto contare, ma se qualcun altro fosse stato lì a guardarlo avrebbe saputo che il bambino vagò per almeno tre ore, fra i corridoi vuoti, per le stanze vuote. Non vide i cadaveri riversi a terra, dilaniati dalla furia dei Greubywyd, nel disperato tentativo di difendersi, e non vide il sangue sulle pareti: gli sembrò solo di camminare per un posto dove adesso erano tutti andati via.
Alla fine, forse per la prima volta o forse per l'ennesima, arrivò in una stanza quadrata, su in alto, con la finestra scardinata e degli strani solchi sulla roccia sgretolata del davanzale. Sul letto vide una persona distesa supina, che non si muoveva; ma anche allora non ebbe paura.
Salì sopra il materasso per vedere meglio: era il principe, ma era tanto pallido e quando lo toccò sentì freddo e gli venne da vomitare, però resistette e rimandò giù quello che stava venendo su perché adesso era un uomo, e fu fiero di sopportare il bruciore che adesso sentiva alla gola. Scese rapidamente dal letto perché lì non aveva più niente da fare e prese a girarci attorno.
Le braccia del Principe Averon erano aperte. Nella mano destra c'era una spada rotta, tutta sporca e con le croste, tipo quelle che si faceva lui sulle ginocchia giocando; decise che non gli interessava. Nella mano sinistra invece trovò un piccolo libro, con la copertina di legno, lo prese. Dovette tirare con forza per strapparlo alla mano del principe, forse perché anche da morto non voleva che Ako gli rubasse il suo libro; ma neanche in quest'occasione ebbe paura.
Prese il libro e lo sfogliò. Papà aveva cominciato a insegnarli a leggere, ma non era ancora tanto bravo. Decise comunque che l'avrebbe letto dopo.
Andò alla finestra e guardò fuori. Da lì poteva vedere il cortile accanto al fortino, dietro le mura secondarie. Gli sembrò di vedere qualcuno che si muoveva. Andò a vedere.
Si perse un po' di volte ma alla fine trovò la strada, tanto non c'era nessuno che gli diceva di fare presto perché era in ritardo.
Quando arrivò giù trovò dei bambini che conosceva, che lo guardarono con facce stupide e che erano tutti sporchi di polvere bianca e anche un po' di sangue. Quando videro che aveva una cosa in mano tutti si avvicinarono e protesero le mani. Lui si arrabbiò e li fermò alzando la sua, loro obbedirono.
«Questo è il libro del principe» disse. «Lui me lo ha dato perché ha deciso che io lo dovevo avere.»
Nessuno parlò. Ako prese una bambina carina con i riccioli e se la portò affianco, lei gli prese la mano e gli sorrise contenta.
«Io ho il libro del principe, quindi io comando» disse ancora. I bambini non dissero niente per un po', poi la bimba che Ako aveva preso con sé si girò timidamente verso di lui e disse quasi in un sussurro: «Ho fame.»
Lui la guardò, decise che anche lui aveva fame. Poi guardò gli altri e ordinò perentorio: «Andate fuori dalle mura a prendere da mangiare, e voi due accendete un fuoco.»
«Ma non sappiamo come si fa!» protestarono i due che aveva indicato.
Ako andò verso di loro con fare superiore. «Allora ve lo insegno io, ma poi lo dovete fare da soli. E voi sbrigatevi!»
Gli altri corsero via e Ako fu soddisfatto di sé.
Ako non sapeva che, su in alto sui bastioni del fortino, c'era un grande mostro alato che lo guardava, che li guardava tutti. La sua mente lenta vagliò per lunghe ora l'idea di scendere e dilaniarli, ma poi, per motivi che forse nessun umano potrebbe ipotizzare, decise di non farlo.
Dispiegò le sue grandi ali e spiccò il volo. I bambini sotto non si accorsero di lui e lui si era già dimenticato di loro. Volò alto, lontano dalla fortezza di Hores che per lui non aveva significato, lontano dal mondo degli uomini, libero. Non guardò mai indietro, non si domandò mai... se quello che aveva fatto fosse giusto o sbagliato.

Fine
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I COMMENTI AL RACCONTO

Messaggiodi demon black » 21/07/2011, 21:03

La sottile distanza - di "Viandanti di Altrove" per www.terradialtrove.it


Parte alla grande! Ottimi personaggi, soprattutto originali e in un fantasy si rischia sempre di cadere
nei clichè. Buona anche l’ambientazione. Tutta la premessa con la descrizione dei personaggi e del
loro viaggio mette l’acquolina in bocca. Curato anche il lessico e si vede che è stato scritto da ottime
penne, con la massima cura e dedizione.
Poi, però, va scemando. E alcuni degli spunti in premessa non vengono adeguatamente esauriti. E
non tutto appare perfetto.
La descrizione iniziale del mostro fa acqua. Loro, i personaggi, quel mostro lo conoscono, sono 20
anni che distrugge tutto non lo si può descrivere come "una specie di strano uccello dal lungo collo
nero". Il lettore non lo conosce, è la prima volta che ne “sente”parlare. I protagonisti no! Loro ne
parlano, ne discutono, anche la descrizione con il tempo sarà diventata sempre più curata: non può
essere “uno strano uccello”. Ma questo è l’unico dettaglio negativo della prima parte della storia!
Con l’andare avanti invece si notano le prime pecche. Il personaggio di Helena, tanto per citarne
una, ha, ai fini della storia, il solo ingrato compito di far venire una crisi di coscienza a Tali. Allora
perché dilungarsi sulla sua vita? Per rendere più grave e triste la sua morte? Ok, giustissimo. Ma allora
perché descrivere quel suo potere visivo, che poi non serve a niente? Meglio sarebbe stato farglielo
sfruttare o non citarlo neppure.
Ancora: la visione della stessa azione da più punti di vista è una cosa che al cinema funziona bene,
nella narrativa un pò meno. Non si può ripetere la stessa vicenda tre volte, semplicemente vista da
altre angolazioni. Non se nulla aggiunge alla narrazione. I sentimenti dell'uno o dell'altro potevano
essere descritti comunque, dal narratore senza costringere a rileggere tre volte la stessa frase, per
confermare quanto si intuiva nel primo punto di vista. Si sarebbe dovuto evitare di tornare indietro
aggiungendo un secondo punto di vista che alcun dettaglio veramente utile, dà al lettore.
Altre sciocchezze di poco conto non è il caso di citarle. Sottolineiamo invece che ci sono dei momenti
davvero alti. Il brano dello "strappo" il momento in cui le anime dei gemelli si disgiungono è
un picco creativo di tutto rispetto. La storia è buona, piace anche il ribaltamento di ruoli che pone
quelli che sembravano feroci aggressori, come rivoltosi, ansiosi solo di recuperare la propria libertà.
Anche se a momenti sembrano senzienti a momenti degli animali privi di raziocinio.
A fronte di alcuni lungaggini inutili, di alcuni dettagli forzati e altre grossolanerie di seconda importanza,
si sottolinea invece un’opera di editing sul testo che nessun racconto di Adunanza 2011 può
vantare.
----------
Le dinamiche tra i personaggi sono molto interessanti. I passaggi da un pezzo all'altro sono davvero
ben costruiti (come quel tornare indietro alla prospettiva di Talitha, improvvisa aiutante svelata
come sacerdotessa). Alcune cose però stonano vivacemente, faccio un piccolissimo esempio: “Eh
eh, da un po’ tesorino.” non c'entra assolutamente niente con il carattere di Ethan. Altre invece fanno
sorridere: «Mi serve il tuo aiuto, non il tuo nome.» Inoltre il finale che preserva la vita con la sopravvivenza
dei bambini, non so... non mi ha convinta molto. Comunque ben scritto!
---------
Molto-molto bello! Interessante, solo a tratti noioso (questione di gusti). Decisamente il migliore sia
per la coesione tra gli stile che per l'accuratezza. Trama originale, concordo con mangal: viene voglia
di leggerne ancora.
---------
Il mio preferito, questione di gusti, credo. È vero, come dice marzialice, che i personaggi sfumano,
scompaiono, ma a me pare scritto bene. Molto gradevole.
-----------
Per quanto io ami il genere, questo si becca il cucchiaio di legno. Mamma, che confusione. Il punto
di vista balla la salsa. I due personaggi iniziali, che mi accompagnano dentro una storia “forte”,
scompaiono per diventare due sbiadite comparse. La logica dei personaggi è incerta, parlano in un
modo e agiscono in un altro. Val è un vero UFO, in questo senso. La “maledizione” di Cecil e Ethan
è oscura, e non si capisce perché sia la chiave che risolve la faccenda. Il rapporto fra i sacerdoti e gli
uccellacci resta fumoso. Ci sono errori di narrazione: Tali non conosce il nome di Ethan, quando lui
si è presentato due pagine prima. Un paio di pezzi sono ripetuti. Riassunti? In una storia così breve
non sono necessari, risultano solo ripetizioni, sviste pesanti di rilettura.
Peccato. Avevo cominciato a leggere con molto gusto.
---------
Ancora devo iniziare e l'impaginazione e la struttura grafica mi stanno facendo venire l'orticaria. La
padronanza del linguaggio è buona, non ho visto refusi, lo stile è uniforme, ma il racconto è noioso,
per me. Ripeto che l'impaginazione non merita perdono, è molto dispersiva. Ci sono paragrafi di
una o due righe.
---------
Scritto bene, curato nell'editing. Storia difficoltosa da seguire nei cambi di capitoli per i troppi punti
di vista utilizzati che non permettono una lettura fluida e confondono.
-------
La storia mi è piaciuta ma sono troppe le ripetizioni dei fatti narrati dai vari punti di vista. Personaggi
un po’ deboli nel complesso e senza un vero protagonista.
--------
Storia abbastanza scontata anche se ben articolata. Scrittura piuttosto zoppicante: probabilmente è
mancato il tempo di editare il racconto prima di consegnarlo.
--------
Ben scritto, a volte un po’ lento e l’idea di base non è proprio originale. Una clamorosa ripetizione
(Aran ucciso due volte a distanza di poche pagine)fa dare mezzo voto in meno.
--------------
Ottimo uso della punteggiatura.
Testo scorrevole.
"apripiste" non mi pare che parole del genere abbiano il plurale.
Per i miei gusti, ci sono troppi personaggi per un testo di queste dimensioni (benché sia uno dei più
lunghi dell'Adunanza), non ho avuto il tempo di assimilarli. Dato che comunque questi personaggi
sono abbastanza essenziali all'economia del storia, forse avrebbe aiutato l'uso di nomi più comuni.
Inoltre, durante la narrazione, molti nomi potrebbero essere sostituiti da dei pronomi. Molti nomi,
infatti, sono ripetuti troppe volte a breve distanza. Per esempio:
"Ako andò verso di loro con fare superiore. «Allora ve lo insegno io, ma poi lo dovete fare da soli.
E voi sbrigatevi!»
Gli altri corsero via e Ako fu soddisfatto di sé.
Ako non sapeva che, su in alto sui bastioni del fortino"
-----------
Non amo il genere, apprezzo lo sforzo di aver creato un discreto intreccio narrativo, di aver saputo
sviluppare la storia tenendo sempre alto il livello della scrittura.
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Re: La Locanda in Adunanza

Messaggiodi orialla » 22/07/2011, 7:51

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Re: I COMMENTI AL RACCONTO

Messaggiodi demon black » 22/07/2011, 9:42

demon black ha scritto:La sottile distanza - di "Viandanti di Altrove" per http://www.terradialtrove.it


si sottolinea invece un’opera di editing sul testo che nessun racconto di Adunanza 2011 può
vantare.


Volevo sottilineare questo punto :ugeek:

Noi abbiamo la nostra grande e mitica Claudia e loro no!!!!! :twisted: :twisted: :twisted: :twisted: :twisted:
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Re: La Locanda in Adunanza

Messaggiodi gio » 22/07/2011, 10:00

COMPLIMENTI COMPLIMENTI COMPLIMENTI!!!

Ed è in fase di costruzione una pagina del sito Terra di Altrove dedicata a questo evento, da cui sarà possibile scaricare il pdf del racconto :ugeek: :ugeek:
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Re: I COMMENTI AL RACCONTO

Messaggiodi claudia » 22/07/2011, 10:02

demon black ha scritto:
demon black ha scritto:La sottile distanza - di "Viandanti di Altrove" per http://www.terradialtrove.it


si sottolinea invece un’opera di editing sul testo che nessun racconto di Adunanza 2011 può
vantare.


Volevo sottilineare questo punto :ugeek:

Noi abbiamo la nostra grande e mitica Claudia e loro no!!!!! :twisted: :twisted: :twisted: :twisted: :twisted:


Però c'era anche questo:
Scrittura piuttosto zoppicante: probabilmente è
mancato il tempo di editare il racconto prima di consegnarlo.


E' tutta una questione di punti di vista, mia cara Blackie, ne sono sempre più convinta. Quello che invece mi ha reso felice è il fatto che tutti siano concordi sulla mancanza di refusi. Secondo c'è la tendenza a fare confusione tra editing e correzione bozze. Sicuramente il commento da te citato si riferiva alla seconda. Ciò non toglie che sono lo stesso molto fiera del mio lavoro:D ;)
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Re: La Locanda in Adunanza

Messaggiodi demon black » 22/07/2011, 12:25

Ciò non toglie che siamo tutti molto fieri del tuo lavoro! :ugeek:

Sono veramente felice del risultato, sono proprio orgogliosa di me stessa e di tutti noi!!!!!!!!!!!!!!!!! :mrgreen: :lol: :lol: :lol: :lol:

E hai visto come è piaciuto anche lo "strappo" tra Ethan e Cecil?! Mitico!!!! :ugeek:
Fantastico!!!!!!!!!!!! :lol: :lol: :lol: :lol:
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Re: La Locanda in Adunanza

Messaggiodi Tremalnaik » 22/07/2011, 13:28

L'ho già detto ma ripeto, seite state
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Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza.
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Re: La Locanda in Adunanza

Messaggiodi gio » 25/08/2011, 11:22

Il racconto ha la sua stanza nel sito della Terra di Altrove!!!


:arrow: http://www.terradialtrove.it/Eventi%20d ... ltrove.htm
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