Mmm...
Tanti argomenti. Tante posizioni. E molto rischio di rumore bianco che disturbi tutto il resto.
Un paio di centesimi sparsi in maniera disordinata...
Mio cugino, sulla sua carta d'identità, alla voce "professione" ha fatto scrivere "ingegnere". Io ho fatto scrivere "lavoratore dipendente". Entrambi ci siamo laureati al Politecnico (laurea di primo livello), ed entrambi lavoriamo come dipendenti: io programmo robot, lui programma Virgilio.
Che c'azzecca?!
C'azzecca nei termini in cui io non riuscirei mai a considerare l'"ingegnere" quale una professione: è una qualifica, un traguardo formativo, ma non una professione. Tecnicamente parlando, mi rendo conto, anche "lavoratore dipendente" non è una professione: è una qualifica, una collocazione professionale, ma non una professione, ragione per cui, probabilmente, lui, come me e a me opposto, non ha pensato di dichiararla quale propria professione.
Quale domanda probabilmente ci siamo posti quando abbiamo dato queste diverse risposte?
Io credo che la domanda comune a entrambi sia stata "Cosa faccio io per vivere?". Domanda alla quale lui ha risposto "faccio l'ingegnere" e io ho risposto "faccio il lavoratore dipendente".
Sotto questo profilo, forse fazioso, forse limitato, si potrebbe quindi dirimere la questione nel merito a "chi è uno scrittore?" così come ha giustamente proposto Niji (trovandomi pienamente concorde, sottolineerei).
Scrittore è chi vive della propria scrittura.
Tito Faraci, già tirato in ballo in uno dei miei interventi di ieri sera, è uno scrittore. Perché mangia grazie al suo scrivere. Perché si pone al mattino davanti alla tastiera e sa che dovrà battere i tasti non solo per mero piacere personale nel farlo, ma perché se non riesce a farlo (e a fare qualcosa che soddisfi i suoi datori di lavoro) potrebbe non mangiare.
Parimenti, artista è chi vivere della propria arte.
Max Bertolini, che ho avuto il piacere di conoscere di persona tempo fa, conversandoci a lungo (e comprendendo di non potermi di certo illudere di avere un qualunque futuro nel campo del disegno nonostante ogni mia passione in tal senso), è un artista. Perché mangia grazie alla sua arte. Perché si pone al mattino davanti a una pagina bianca e sa che dovrà darle vita con un'illustrazione non solo per mero piacere personale nel farlo, ma perché se non riesce a farlo (e a fare qualcosa che soddisfi i suoi datori di lavoro) potrebbe non mangiare.
Questo criterio, forse impietoso, credo che potrebbe essere giudicato l'unico utile a distinguere concretamente uno scrittore da uno che scrive per hobby (così come, ancora, già proposto da Niji).
Così come è l'unico che, dopotutto, distingue un avvocato da un appassionato di Perry Mason. Un poliziotto da un appassionato di Salvo Montalbano. Un medico da un appassionato di Gregory House (ommamma!!!).
Criterio sulla base del quale i millemila autori aNobiiani citati da Gio si ridurrebbero drasticamente a...? Quanti? Una ventina?!
Un colpo al cerchio e uno alla botte.
Robert E. Howard scriveva per mangiare. Ed erano più le volte che non mangiava. (in compenso molta gente dopo la sua morte ha mangiato grazie a lui e continua a mangiare tutt'oggi)
J.R.R. Tolkien scriveva per diletto. Perché mangiava grazie al suo lavoro da professore universitario. (e, parimenti, molta gente comunque mangia ancora oggi grazie a lui)
E' un esempio. E un esempio forse malizioso.
Ma stando a quello che ho detto un attimo fa (e che non desidero smentire), potremmo considerare come Robert E. Howard sia stato uno scrittore, mentre J.R.R. Tolkien no. Tolkien era un professore universitario che, come hobby, scriveva.
Cosa rende J.R.R. Tolkien uno scrittore?
Risposta retorica: il fatto che oggi qualcuno si ricorda il suo nome. E non perché lo ha conosciuto. Ma perché le sue opere sono perdurate oltre la sua morte e gli hanno donato, a modo loro, l'immortalità.
A chi non piace l'idea di poter distinguere uno scrittore sulla base della dichiarazione dei redditi, direi che l'unica, magra, consolazione che resta è il pensiero, la speranza, che da qui a cento anni qualcuno si possa ancora ricordare il suo nome, per merito delle sue opere.
E non mi vergogno ad ammettere che, personalmente, io mi colloco proprio in questa categoria, fra gli illusi che sperano che fra cento anni qualcuno possa ancora avere ragione per ricordarsi il nome di Midda Bontor.