FIABACome vi dicevo ieri, tornai dal secondo viaggio felice per lo scampato pericolo e ancor più ricco di quando ero partito, perché Allah mi aveva concesso di guadagnare tanto denaro da poter compensare gli averi che avevo perduto.
Rimasi così per qualche tempo nella città di Baghdad, godendomi l'agiatezza e la felicità, fino a quando l'animo mio fu di nuovo preso dal desiderio di viaggi e di avventure ed altro il mio cuore non desiderò se non d'intraprendere nuovi traffici e di guadagnare altro denaro. Perché il nostro cuore è così fatto che sempre ci sprona verso il male.
Presa la mia decisione, misi insieme una grande quantità di merci e mi recai a Bassora, dove trovai nel porto una bella nave pronta a salpare, con la ciurma al completo e numerosi mercanti, uomini stimati e ricchi.
Mi imbarcai con loro e spiegammo le vele augurandoci l'un l'altro, con la benedizione e l'aiuto di Allah Onnipotente, di poter viaggiare sicuri e tornare a casa prosperi e in buona salute.
In effetti il nostro viaggio cominciò sotto i migliori auspici : viaggiammo da un mare all'altro, da un'isola all'altra, da una città all'altra, comprando e vendendo in ogni porto in cui scendevamo, visitando i luoghi e istruendoci sulle cose nuove che vedevamo.
Fino a che un giorno, mentre navigavamo in alto mare là dove le onde cozzano l'una contro l'altra, vedemmo il capitano della nave, che se ne stava sul ponte intento a scrutare l'oceano in tutte le direzioni, lanciare un gran grido e darsi degli schiaffi in faccia, e strapparsi i peli della barba e stracciarsi i vestiti e ordinare all'equipaggio di ammainare le vele e di gettare le ancore.
Noi gli chiedemmo: " Padrone, cos'è che non va? "
" Sappiate, fratelli miei, che Allah vi preservi, che il vento ci ha preso la mano e ci ha portato fuori dalla nostra rotta in mezzo all'oceano; e il destino, per nostra disgrazia, ha voluto che giungessimo sul Monte delle Scimmie, un luogo dal quale nessuno è mai tornato vivo; qualcosa in cuore mi dice che siamo tutti perduti. "
Aveva appena finito di pronunciare queste parole che le scimmie ci furono addosso, numerose come una torma di cavallette, mentre altre invadevano la spiaggia dell'isola gettando urla che ci facevano gelare il sangue. Queste scimmie erano creature spaventevoli e selvatiche, coperte di pelo nero, piccole (non erano più alte di quattro Capanne), con gli occhi gialli e le facce nere.
Nessuno conosce il loro linguaggio né sa a quale razza appartengano, ed esse odiano la vicinanza degli uomini.
A causa del loro numero, noi avevamo paura di scacciarle con i bastoni, perché pensavamo che se ne avessimo colpita o uccisa qualcuna le altre ci sarebbero piombate addosso e ci avrebbero dilaniato.
Rimanemmo così impietriti lasciando che facessero quello che volevano. Le scimmie, che erano salite a bordo, ruppero i cavi dell'ancora e tutte le gomene della nave, così che questa, sbattuta dal vento, andò ad arenarsi sulla spiaggia dell'isola.
Allora esse afferrarono mercanti e passeggeri e li gettarono a terra; quindi, impadronitesi delle nostre mercanzie, si allontanarono con la nave andando chissà dove.
Rimanemmo così abbandonati su quell'isola, cibandoci con i frutti che trovavano e con le erbe dei campi e bevendo l'acqua dei ruscelli, fino a che un giorno scorgemmo nell'interno dell'isola quella che sembrava essere una casa abitata.
Ci dirigemmo subito da quella parte e quando fummo più vicini vedemmo che si trattava di un castello, circondato da spesse mura, nelle quali si apriva una porta a due battenti di legno d'ebano.
Poiché la porta era aperta, entrammo e ci trovammo in un grande spiazzo, tutt'intorno al quale si aprivano altissime porte, anch'esse aperte, mentre a un'estremità scorgemmo una grande panca di pietra con accanto bracieri e arnesi da cucina e tutt'intorno numerose ossa.
Non vedemmo però nessuno degli abitanti del castello e di ciò ci meravigliammo moltissimo.
Ci sedemmo nello spiazzo del castello e, per la gran stanchezza, ci addormentammo subito. Dormimmo fino al tramonto del sole, quando fummo risvegliati di soprassalto sentendo la terra che tremava sotto di noi e nell'aria il boato di un tuono.
Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo scendere verso di noi, dall'alto del castello, una creatura enorme in sembianze d'uomo, nera di pelle, alta come una palma da datteri, con gli occhi come tizzoni ardenti, zanne simili a quelle dei cinghiali e una bocca grande come la vera d'un pozzo.
Le labbra, simili a quelle d'un cammello, gli penzolavano giù fin sul petto; le orecchie erano due sventole enormi che arrivavano fino alle spalle, mentre le unghie delle mani parevano artigli di leone.
Quando vedemmo questo orribile gigante, ci sentimmo venir meno e rimanemmo impietriti dalla paura.
Giunto nello spiazzo, il gigante si sedette per un po' sulla panca, poi si alzò, si avvicinò a noi e mi prese per un braccio scegliendo me fra tutti i miei compagni mercanti.
Mi prese in mano e cominciò a girarmi e rigirarmi, tastandomi come fa il macellaio quando sceglie una pecora da scannare, ed io in mano sua ero appena un bocconcino. Tuttavia dovette trovarmi non abbastanza grasso per i suoi gusti perché, dopo avermi esaminato ben bene, mi lasciò andare e prese un altro, con il quale fece la stessa cosa e così, uno dopo l'altro, ci prese e ci tastò tutti quanti fino a che non arrivò al capitano della nave.
Questi era un pezzo d'uomo robusto e bene in carne e piacque al gigante, il quale lo afferrò, come fa il beccaio con la pecora, lo gettò a terra, poi gli pose un piede sul collo e glielo spezzò. Quindi prese uno spiedo, lo infilò nel sedere del capitano, e glielo fece uscire dalla testa, poi accese un bel fuoco, vi pose sopra lo spiedo e continuò a girarlo finché la carne non fu cotta. Quando il capitano fu ben rosolato, lo tolse dal fuoco e dallo spiedo, se lo mise davanti e cominciò a spezzarlo, come facciamo noi con una pollastra, strappando la carne con le unghie e mangiandosela.
Si mangiò così tutto il capitano, spolpando ben bene le ossa che gettò da una parte; poi, ben sazio, si sdraiò sulla panca e si addormentò mettendosi a russare che sembrava un montone sgozzato. Quando spuntò il giorno si alzò e se ne andò per i fatti suoi.
Appena fummo certi che se ne fosse andato, cominciammo a parlare fra di noi, piangendo e compatendoci per la nostra sorte, e dicendo:
" Volesse il cielo che fossimo annegati o che ci avessero sbranati le scimmie! Sarebbe stato sempre meglio che finire arrostiti sui carboni; questa, per Allah, è una morte ben disgraziata e orribile! Ma quello che Allah vuole deve avvenire e non vi è maestà e potenza se non in lui, il Glorioso, il Grande! Ormai non v'è dubbio, faremo una fine miserevole e nessuno saprà nulla di noi; da questo luogo non riusciremo mai a fuggire. "
Poi ci alzammo e cominciammo a vagare per l'isola, cercando un posto dove nasconderci o una via di scampo. Ma non era la morte che ci spaventava, bensì il fatto di finire arrosto e di essere mangiati.
Purtroppo non riuscimmo a trovare alcun nascondiglio, e così a sera tornammo al castello e ci sedemmo nello spiazzo, mezzi morti di paura.
Ed ecco che sentimmo tremare la terra ed arrivò il gigante nero il quale, come aveva fatto la sera innanzi, si avvicinò a noi e prese a tastarci fino a che trovò uno che gli parve abbastanza grasso e fece con lui quello che aveva fatto col capitano il giorno prima.
E dopo che ebbe mangiato si sdraiò sulla panca e, si addormentò mettendosi a russare. E all'alba del giorno dopo si alzò e se ne andò per le sue faccende.
Quando fummo rimasti soli, ci raccogliemmo in circolo e cominciammo a parlare, e uno di noi disse:
" Per Allah, sarebbe meglio se ci gettassimo in mare e annegassimo, piuttosto che morire arrostiti; perché questa è una morte abominevole! "
E un altro soggiunse: " Ascoltate le mie parole! Dovremmo trovare il modo di ucciderlo. Solo così potremo liberarci di questa minaccia e liberarne anche tutti i musulmani! "
Allora io mi alzai e dissi: " Ascoltatemi, fratelli miei, se l'unica via di scampo è quella di uccidere questo gigante, dovremo per prima cosa costruirci una zattera e tenerla pronta sulla riva del mare. Perché se noi riusciremo ad ucciderlo potremo fare due cose: imbarcarci e cercare di raggiungere i paesi civili, oppure rimanere su quest'isola in attesa che qualche nave ci scorga e ci raccolga. Ma se per caso non riusciamo ad ucciderlo, allora l'unica cosa che possiamo fare è quella di correre alla spiaggia, saltare sulla zattera e cercare di fuggire via. In un modo o nell'altro, una zattera ci è indispensabile. "
Udite le mie parole, tutti furono d'accordo, così ci mettemmo all'opera.
Costruimmo alla meglio una zattera, vi caricammo su delle provviste, la nascondemmo vicino alla spiaggia e poi tornammo al castello.
Quando arrivò la sera, ecco che di nuovo la terra cominciò a tremare e il gigante ci fu addosso ringhiando come un cane rabbioso. Come aveva fatto nelle due sere precedenti, scelse uno di noi, lo uccise, lo arrostì e lo mangiò, poi si sdraiò sulla panca e si mise a dormire.
Allora noi non appena fummo sicuri che dormiva della grossa, afferrammo due spiedi e li ponemmo sul fuoco lasciandoceli finché non furono bene arroventati. Poi li prendemmo e glieli ficcammo negli occhi, spingendo con tutta la forza delle nostre braccia, fino a che gli occhi non gli scoppiarono per il calore ed egli diventò completamente cieco.
Per il grande dolore, il gigante si svegliò lanciando un grido che ci fece quasi morire di paura, poi balzò in piedi e cominciò a cercarci; ma non poteva trovarci, perché era cieco e noi fuggivamo da tutte le parti.
Poiché non poteva nulla contro di noi, il gigante se ne uscì dal castello e noi gli tenemmo dietro per un po', quindi ci recammo nel luogo dove era nascosta la zattera dicendoci:
" Rimaniamo qui fino a sera, e se costui non torna vorrà dire che è morto e che noi potremo restare su quest'isola in tutta sicurezza; se poi dovesse tornare, metteremo subito la zattera in acqua e fuggiremo via. "
Avevamo appena finito di dire queste parole, quand'ecco che ricomparve il gigante cieco accompagnato da un altro gigante, se possibile ancor più orrendo e spaventoso di lui.
Non appena li vedemmo ci precipitammo sulla riva del mare, montammo sulla zattera e fuggimmo via.
Quelli intanto, accompagnandosi con orribili grida, cominciarono a scagliarci addosso massi di ogni forma e dimensione. E alcuni cadevano in acqua, ma altri colpivano la zattera. Alla fine, come Dio volle, ci trovammo in alto mare e fuori della loro portata.
Così, ci guardammo intorno e vedemmo che eravamo rimasti solo in tre, perché gli altri erano morti tutti, colpiti dai massi.
Continuammo ad andare in balia delle onde affranti e stremati, e tuttavia cercando dì rincuorarci a vicenda, fino a che i venti ci gettarono su un'isola, dove c'erano alberi, uccelli e corsi d'acqua.
Ci inoltrammo per un po' verso l'interno, poi mangiammo i frutti, degli alberi e bevemmo l'acqua dei ruscelli, e al calar della sera ci gettammo per terra e subito ci addormentammo tanta era la fatica che avevamo addosso. Avevamo appena chiuso gli occhi, quand'ecco fummo risvegliati da un sibilo e vedemmo un serpente enorme e mostruoso che ci aveva circondati con le sue spire e. afferrato uno di noi, lo aveva inghiottito fino alle spalle. Poi inghiotti anche il resto e noi sentimmo le costole del nostro compagno che si spezzavano nel ventre dell'animale. Fatto questo il serpente se ne andò, lasciandoci sbalorditi per quello che era capitato al nostro compagno.
Quando ci riavemmo dallo stupore, cominciammo a dire:
" Per Allah, questo è un fatto terribile! Ogni volta siamo minacciati da una morte peggiore della precedente. Ci rallegrammo di essere scampati alle scimmie e cademmo nelle mani del gigante nero; ci rallegrammo di essere sfuggiti al gigante nero, ma ora ci pare di essere minacciati da una morte ben peggiore. Non v'è forza se non in Allah! Ma, per l'Onnipotente, come faremo a evitare questo abominevole mostro serpentino? "
Girammo tutto il giorno per l'isola mangiando frutti e bevendo l'acqua dei ruscelli, e quando venne la sera, ci arrampicammo su un albero altissimo e ci accingemmo a dormire. Ma ecco che arrivò il serpente e cominciò a guardare a destra e a sinistra, fino a che ci vide in cima all'albero; allora, avvolgendosi con le spire intorno al tronco, cominciò a salire e raggiunse il mio compagno, che si trovava su un ramo più basso, e con un sol colpo lo inghiottì fino alle spalle, poi con un altro colpo lo inghiotti tutto.
Io me ne stavo lì terrorizzato e sentivo le ossa del mio compagno scricchiolare nel ventre dell'animale ed ero incapace di distogliere gli occhi da quello spettacolo orrendo.
Dopo che ebbe inghiottito il mio compagno, il serpente se ne andò come era venuto.
Il mattino dopo, quando fui sicuro che il serpente se ne era andato, scesi dall'albero, più morto che vivo dalla paura, e pensai sul momento di gettarmi in mare e por fine ad ogni affanno; ma non lo feci, perché la vita è l'ultima cosa alla quale si rinuncia.
Stetti così per un poco a riflettere, poi scelsi cinque rami d'albero, larghi e lunghi, e due me li legai in croce ai piedi, due me li legai ai fianchi e il quinto me lo legai sulla testa per il largo. Poi mi sdraiai per terra protetto da questa specie di gabbia e attesi.
Ed ecco che, scesa la sera, arrivò il serpente, il quale mi vide e si avvicinò; ma non poté inghiottirmi a causa dei rami che mi proteggevano. Allora mi girò intorno e cercò d'inghiottirmi dalla parte dei piedi, ma anche di là non riuscì a far nulla per via dei rami d'albero legati in croce.
E mentre quello mi girava intorno e studiava il modo d'ingoiarmi, io stavo lì e lo fissavo con gli occhi sbarrati dal terrore. Andò avanti così per tutta la notte, con il serpente che cercava di ingoiarmi e i rami che glielo impedivano. Quando spuntò il sole, il serpente se ne andò, soffiando per la rabbia.
Allora io mi sciolsi dalle tavole, mi alzai in piedi e ricominciai a camminare per l'isola finché, arrivato in cima a un promontorio, mentre guardavo distrattamente il mare, vidi in lontananza una imbarcazione e subito raccolsi un ramo frondoso e cominciai ad agitarlo gridando. Quando quelli della nave scorsero il ramo che io stavo agitando, si meravigliarono fortemente, perché sapevano che l'isola era disabitata; tuttavia si dissero che avrebbero fatto bene a venire a terra perché poteva anche darsi che si trattasse di un uomo.
Così si avvicinarono fino al punto di udire le mie grida e di scorgermi distintamente. Allora scesero a terra, mi presero con loro e mi portarono sulla nave, dove mi rifocillarono e mi diedero dei vestiti per coprirmi.
Io raccontai loro tutto quello che mi era accaduto ed essi si stupirono grandemente; e insieme lodammo l'altissimo per la protezione che mi aveva accordato. Quanto a me, dopo essere stato tante volte così vicino alla morte, trovarmi in salvo mi pareva un sogno.
Per il volere di Allah, navigammo così con vento favorevole fino a che giungemmo in un'isola chiamata Salàhita, ricca di legna di sandalo, dove il capitano gettò l'ancora. E i mercanti che erano a bordo sbarcarono le loro merci per vendere e comperare.
Allora il capitano della nave venne da me e mi disse: " Ascoltami bene, tu sei straniero e povero e le peripezie che ci hai raccontato mi hanno commosso; ho pensato perciò di favorirti in modo che tu possa tornare a casa tua, così che pregherai per me e mi benedirai per il resto dei tuoi giorni "
" Quanto a questo " risposi io, " avrai le mie preghiere. "
Allora il capitano proseguì: " Sappi che imbarcato con noi c'era un mercante che si è perduto e del quale non sappiamo più se sia vivo o se sia morto perché non ce ne sono più giunte notizie. Ho pensato di affidare a te le sue mercanzie acciocché tu le venda su quest'isola. Di quello che avrai guadagnato daremo a te una provvigione e il resto lo terremo da parte fino a che saremo arrivati a Baghdad, dove ci informeremo della famiglia di questo mercante e consegneremo a chi di ragione il denaro. E adesso dimmi, vuoi prenderti cura delle merci di questo mercante? "
Io risposi: " Ascolto e obbedisco, signore, e ti ringrazio per la tua cortesia. "
Allora il capitano ordinò ai marinai di scaricare anche le merci dell'altro mercante che erano rimaste a bordo e le affidò alla mia cura.
Ma lo scrivano di bordo chiese al capitano: " Padrone, che merci sono queste e a nome di chi devo iscriverle nel registro? "
E il capitano rispose: " Iscrivile al nome di Sindbad il Marinaio, di colui che era con noi a bordo della nave e che lasciammo sull'isola del Rukh senza averne più notizie. Voglio che questo straniero si prenda cura di queste cose e le venda, e sul guadagno che avrà fatto daremo a lui una provvigione; il resto lo porteremo a Baghdad e lo consegneremo al proprietario, se riusciremo a trovarlo, se no lo consegneremo alla sua famiglia. "
Lo scriba assentì e rispose: " Il 'tuo ragionamento è saggio, o signore, e il tuo discorso è giusto. "
Quando io sentii che il capitano dava ordine di registrare quelle merci a nome di Sindbad il Marinaio, pensai dentro di me: " Per Allah! ma Sindbad il Marinaio sono io! "
Tuttavia mi trattenni dal parlare subito. Aspettai che i mercanti Fossero scesi a terra,quindi mi avvicinai al capitano e gli chiesi:
"Signore, sai per caso che specie d'uomo fosse questo Sindbad di cui mi hai affidato le merci per la vendita? "
E il capitano mi rispose: " Di lui non so nulla, se non che era della città di Baghdad e si chiamava Sindbad, detto il Marinaio; lo abbandonammo per sbaglio su un'isola e di lui non abbiamo saputo più nulla. "
A questo punto non potei più trattenermi, gettai un gran grido ed esclamai:
" 0 capitano, che Allah ti protegga! Sappi che io sono Sindbad il Marinaio, proprio quello che voi abbandonaste sull'isola del Rukh, e che non sono morto ma sono vivo, proprio come tu ora mi vedi! "
Udendo le mie esclamazioni, gli uomini dell'equipaggio e i mercanti si radunarono subito intorno noi; allora io raccontai ad essi tutto quello che mi era capitato dal giorno in cui mi avevano abbandonato sull'isola del Rukh. Alcuni mi credettero, ma altri rimasero diffidenti. Ma ecco che uno in mezzo a loro si avanzò e disse:
" Ascoltate, brava gente, non vi avevo forse raccontato di aver trovato un uomo attaccato alla carcassa di un animale che avevo gettato nella valle dei serpenti per raccogliere i diamanti? Ma quando io vi raccontai questa storia voi non mi credeste e mi deste del bugiardo. "
" E vero, " dissero tutti, " tu ci hai raccontato questo fatto ma noi non ti abbiamo creduto. "
Allora quell'uomo riprese: " Ebbene io vi dico, e Allah mi è testimone, che questo straniero è proprio l'uomo del mio racconto, ed è lui che mi regalò bellissimi diamanti ed insieme con lui viaggiai fino a Bassora. "
Udendo le parole di quell'uomo, il capitano si avvicinò a me e mi chiese:
" Se tu sei veramente Sindbad il Marinaio, saprai com'è il marchio che c'è sulle tue balle di merci. "
Io gli dissi come era fatto il marchio e, in più gli rammentai alcuni fatti che erano intercorsi fra me e lui durante il viaggio. A queste parole il capitano si convinse che io ero davvero Sindbad il Marinaio e mi abbracciò e rallegrandosi per la mia salvezza disse:
" Per Allah, signore, il tuo caso è davvero meraviglioso e la tua storia incredibile. Ma sia lode ad Allah, che ci ha fatto incontrare di nuovo e ti ha ridato il possesso dei tuoi beni! "
Allora io disposi delle mie mercanzie e le vendetti ricavandone grandi somme di denaro, del che fui molto contento. Andammo avanti così, a, vendere e a comperare in ogni isola che toccavamo, finché non giungemmo nella terra dell'Ind dove comperammo chiodi di garofano e zenzero e molte altre spezie, e di là ci portammo nella terra del Sind, dove pure facemmo buoni affari.
E in questi paesi indiani vedemmo meraviglie senza numero, fra le quali un pesce simile ad una vacca, che alleva i piccoli nutrendoli alle mammelle come un essere umano; e con la sua pelle la gente del luogo ci fa delle pantofole; vidi anche animali marini simili ad asini, a cammelli, e tartarughe larghe venti cubiti. Vidi anche un uccello che nasce da una conchiglia marina e depone le uova sulla superficie del mare e colà le cova senza mai venire a terra.
Alla fine, con un buon vento e con la benedizione di Allah, iniziammo il viaggio di ritorno ed arrivammo sani e salvi a Bassora.
Qui rimasi qualche giorno, poi venni a Baghdad, dove non appena giunto nel mio quartiere e nella mia casa subito fui salutato da familiari e da amici. Durante questo viaggio avevo guadagnato ricchezze senza pari, perciò ne feci partecipi gli orfani e le vedove in segno di ringraziamento per il mio felice ritorno.
Quando mi fui sistemato a casa, organizzai feste e conviti, ai quali invitai amici e conoscenti, e cosi continuai a vivere, dimenticando le disgrazie e le sventure passate.
Questo è quanto di più meraviglioso mi accadde durante il mio terzo viaggio e domani, se Allah lo vuole, sarete di nuovo miei ospiti e vi racconterò le avventure del mio quarto viaggio, che sono ancora più meravigliose di quelle che avete già udito.
Poi Sindbad il Marinaio ordinò che fossero dati a Sindbad il Facchino cento dinàr d'oro e che venisse portata in tavola la cena. Tutti mangiarono e bevvero a sazietà e alla fine Sindbad il Facchino se ne tornò a casa, ringraziando l'ospite per la sua cortesia.
Da Le Mille e una Notte