Qualche anno fa, entrando in libreria, mi ritrovai di fronte a un cartellone promozionale che annunciava l'uscita incredibile e meravigliosa di un nuovo libro di J.R.R. Tolkien: I figli di Hurin.
Per un attimo restai bloccato, sbattacchiando le palpebre con aria incredula e domandandomi se non fossi finito in una sorta di bizzarro universo parallelo, dove il buon professore (magari in compagnia di Isaac Asimov) fosse ancora vivo e vegeto, permettendosi di scrivere nuovi libri.
Un amico fan(atico) di Tolikien mi spiegò come il testo fosse un romanzo postumo, che un figlio di Tolkien (tal Christopher già famoso per aver disegnato le mappe dei libri di suo padre e per aver permesso al mondo di conoscere il Silmarillion, i Racconti incompiuti, etc), aveva estratto dal cilindro questa nuova opera. Dove "nuova", con rispetto parlando, per un autore morto nel 1973, è un concetto decisamente relativo.
Questa sera, su FantasyMagazine, scopro che il fatto si sta ripetendo, con una nuova opera inedita, sempre del buon professore inglese e sempre in grazia al figlio Christopher: La caduta di Artù.
E resto ancora un po' attonito, con gli occhioni sbattacchianti in attesa di una qualche informazione che mi possa spiegare questa prolifica produzione post-mortem.
Cioè... voi come vi confrontate con le opere postume?
Considerate la questione come una mera manovra commerciale per guadagnare qualcosa di più, magari sfruttando il successo derivante da altre fonti, magari anche criticate (come Christopher sembra criticare i film di Jackson, passati e futuri)? Oppure la vedete come un'occasione di godere di opere ingiustamente bistrattate cinquanta e passa anni fa, e recuperate solo oggi con tanta fatica e tanta passione?
Ovviamente quello di Tolkien è solo un esempio. La questione si può applicare a qualunque altro caso di opera postuma... con l'eccezione, ovvia, di quelle opere che seguono di pochi mesi, magari, la morte prematura del loro autore (cfr. Robert Jordan e la ruota del tempo).