NOSLON ovvero LA RISATA ALLO SPECCHIO
Sebbene possa parere a un occhio non aperto alle idee un avvenimento contrario ad ogni logica, la mia esperienza può essere considerata reale quanto la vostra presenza davanti a me, e una narrazione dei fatti potrebbe sconvolgere le menti e traumatizzare i cuori; perciò tenterò di mettervene al corrente omettendo le parti che potrebbero terrorizzare le vostre persone.
Due settimane fa mi recai in Cornovaglia a far visita al mio amico Leshar, proprietario di un maniero che regnava su di un altopiano, al fine di porgergli le mie condoglianze, in quanto aveva perduto la moglie da poche settimane. Contavo di trattenermi da lui pochi giorni, giusto per consolarlo quanto bastava senza disturbarlo troppo.
Vi ero arrivato in carrozza da Bristol e, giungendovi la sera, potei osservare l’ombra tetra del castello che non si distingueva dalla sagoma della rupe su cui era abbarbicato. Da quel punto si poteva abbracciare con lo sguardo la Manica e l’Atlantico, dal pianoro che svettava su un mare scuro e tenebroso.
La fortezza, scarsamente edificata sul lato ovest rivolto al mare ma grandemente innalzata sul fianco opposto con un complesso architettonico che, visto da lontano, si sarebbe considerato sorretto in modo irregolare e instabile, era sormontata da un torrione alto e dritto come un fuso con due finestrelle scintillanti di una luce pallida, le uniche illuminate dall’interno in tutta la struttura. Codeste parevano gli occhi maligni di un corvo appollaiato su quel picco di nuda roccia, eccezion fatta per una secca brughiera che attraversava l’istmo congiungente la rocca con l’entroterra.
Al mio sopraggiungere venni accolto da Leshar che mi tirò dentro alla magione quasi a forza, e dedussi che la causa fosse l’imminente arrivo del temporale; tuttavia il mio amico non si limitò a farmi entrare nell’edificio, ma mi trascinò fin nel torrione dove si era appostato per scorgermi arrivare. Solo quando ebbe chiuso a doppia mandata la porta di un’angusta stanzetta scarsamente illuminata mi si rivolse con un tono confidenziale, ma tremolante e insicuro.
-Compagno, fidato Noslon, averti qui mi rende una grande consolazione. Averti amico nel bisogno dimostra quanto leale e onesto sei! Ormai sei uno dei pochi individui che mi rimangono vicini. Ho perso tutto a questo punto, possiedo solo il castello, di cui mi sento prigioniero…
Turbato, gli domandai il motivo di quell’affermazione, ma, con l’espressione di chi si è lasciato sfuggire un particolare rilevante, egli cambiò repentinamente discorso, invitandomi a raggiungerlo per la cena appena mi fossi sistemato nella stanza degli ospiti.
Organizzatomi nella residenza, mi diressi lungo il corridoio in cui la mia camera era posta al fondo, e trovai facilmente la sala da pranzo, in quanto lungo la via non incontrai diramazioni né usci, ma solo una porta mimetizzata con il muro (tuttavia ben visibile) senza pomello o serratura.
Al pasto il mio anfitrione ed io discorremmo degli eventi che si succedettero nei diciotto mesi in cui non avevamo avuto contatti; scoprii così che Leshar spendeva periodicamente montagne di denaro per ristrutturare o abbellire grandiosamente la magione, se non per arricchirne il mobilio con pezzi d’epoca ricercati da ogni collezionista. Tutto questo senza rischiare minimamente di esaurire il suo patrimonio ricavato dalle proprietà latifondistiche.
-Sono riuscito, di recente,- ammise lui, -ad appropriarmi di un cimelio, uno specchio, che acquistai ad un’asta in Galles, dove mi ero recato per piacere, dalle parti di Cardiff; apparteneva, per quanto sono riuscito a scoprire, a un signorotto della regione che era deceduto pochi mesi prima senza lasciare eredi, cosicché i suoi averi divennero proprietà demaniali.
Detto questo il mio commensale iniziò a illustrare le qualità estetiche del mobile, perdendosi nel discorso; avevo quasi l’impressione che parlasse da solo. Il sottoscritto, in quanto collezionista e interessato a qualsiasi forma d’arte, cercò di convincere il suo interlocutore a mostrargli l’oggetto del suo e soprattutto del mio interesse.
A questa richiesta Leshar mutò la sua espressione, s’incupì, e mi negò, comunque cordialmente, la possibilità di ammirare il cimelio di cui aveva fino a quel momento parlato con tanta lode.
Concluso il pasto, lasciai Il mio amico ad occuparsi di alcune questioni con la servitù, mentre mi avviavo alla mia camera. Lungo il corridoio l’unica illuminazione presente era la presenza (si può quasi dire rada) di torce che rischiaravano debolmente l’ambiente; fortunatamente Leshar mi aveva munito di un candelabro che mi permetteva di distinguere solo un breve tratto di percorso davanti a me.
Giunsi poi al punto in cui si situava la porta a muro, che curiosamente trovai aperta. Pensai che uno dei domestici vi si fosse recato; volli approfittare di quell’occasione per chiedergli una mappa della residenza, al fin di non perdermi durante le mie passeggiate mattutine.
Entrai quindi nella stanzetta che credetti essere uno sgabuzzino, ma la luce del candeliere nelle mie mani mi mostrò solo il mio riflesso nello specchio.
L’oggetto era finemente decorato di rubini coronati di polvere d’oro; la forma ellittica lo faceva parere affusolato e leggiadro.
Era bello, ma di un bello puro e maestoso, tanto che la mia immagine riflessa mi sembrava fuori posto, sminuendo il fascino di quell’opera d’arte. Proprio per poter osservare l’oggetto senza avere davanti il mio viso che, in confronto, mi pareva un abominio, mi spostai e volli ammirare lo specchio di traverso.
Fatto un passo, mi accorsi che la mia figura non si spostava, rimaneva immobile, in piedi, dall’altra parte del vetro. Potei solo notare il moto degli occhi che mi seguivano, il sorriso beffardo e sadico che si allargava, le labbra che si dividevano a mostrare la dentatura, la bocca che si schiudeva con un movimento armonico e l’intero corpo che sussultava ripetutamente. Mi pareva di sentire ora il perfido sogghigno, frutto di una degenerata fantasia maligna, in un crescendo di perversità fino a coprire persino il mio urlo di terrore.
Il panico generato dal non poter percepire la mia voce mi fece precipitare fuori dall’angusta stanzetta e correre all’impazzata lungo il corridoio, non importava in quale direzione, per allontanare il più possibile quel raccapricciante suono, fino a cancellarne anche il ricordo.
La risata non se ne andava. Si era impossessata dei miei timpani. Non sentivo i miei passi angosciati sul tappeto, o il mio grido che agognava l’aiuto di Leshar.
Diventai ben presto inerte sotto il peso di quell’orrida cantilena. Non posso riferirvi le emozioni che concepii nel ricettacolo della mia mente, perché vanno ben aldilà della comprensione umana, e parlarne mi inquieta, in quanto le temo, quasi siano per me la paura stessa.
Corsi a perdifiato lungo l’interminabile corridoio in penombra; non importava dove mi dirigessi, benché fosse lontano da quel demoniaco suono.
All’improvviso, caddi. Non me ne spiego il motivo, né perché proprio a quel punto: quel punto, così vicino alla fine; davanti a me una porta socchiusa, non realizzai di quale stanza, da cui proveniva uno spiraglio di luce, in netto contrasto con l’intero ambiente intorno a me, ormai oscuro oltre ogni limite; colsi una figura oltre l’uscio, contorni umani.
Non dovetti nemmeno focalizzare lo sguardo per riconoscere i lineamenti di Leshar, incupiti, gli occhi vacui, osservarmi immobile. Aveva visibilmente paura, ma non come me. Sembrava conoscere il suo timore e se ne teneva cautamente lontano.
Allungai il braccio verso di lui, invano. Avrei voluto gridare il suo nome e la mia pena, ma non avevo la forza di pronunciare una parola, e non credo che le mie richieste d’aiuto lo avrebbero smosso dalla sua posizione.
Dopodichè, l’oblio.
Mi ripresi in una camera dall’aspetto spoglio, la mattina, e avevo ancora il cuore in gola.
Scoprii che mi trovavo alla locanda del villaggio vicino; trovai tutti gli averi che mi ero portato da casa. Non mi chiesi nemmeno come fossi giunto lì; me ne andai in fretta, in carrozza, lasciando una cifra indeterminata all’albergatore, sperando che bastasse al saldo.
Sulla diligenza guardai indietro una volta sola; mi apparve il castello di Leshar, sulla sua cupa scogliera. Parevano ora le finestre occhi da cui traspariva crudele malevolenza, e le mura merlate formavano mascelle mostruose che si allargavano in un satanico sorriso, che a niente di umano poteva rassomigliare.